Così vicini e così lontani: comunisti sardi e corsi tra autonomia, lotta di classe e identità insulare

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di Vindice Lecis

La costa settentrionale della Sardegna e quella meridionale della Corsica sono separate da un breve e tempestoso braccio di mare. Sardi e corsi oltrepassando quella frontiera liquida per secoli hanno intrecciato rapporti, si sono reciprocamente insediati in diverse aree, hanno commerciato e molto operato di contrabbando. Le due isole, in specie la francese, sono state anche terra d’asilo per i perseguitati sia dai Savoia che dal fascismo. E quando, nel gennaio 1793, la flotta francese bombardò Cagliari e l’esercito rivoluzionario occupò l’isola di San Pietro, questa fu ribattezzata L’isola della libertà dal rivoluzionario italiano Filippo Buonarroti, a nome dei fratelli corsi.

Eppure una sinergia culturale e politica di lunga durata raramente, ha raggiunto significativi sviluppi. Almeno quanto sarebbe stato lecito da attendersi da regioni così prossime.

Ciò che le ha unite, e le unisce ancora, è invece il sottosviluppo, la deindustrializzazione, una certa identità negata, anche se talvolta declamata confusamente nei confronti di vari poteri che hanno assunto, sovente, sembianze coloniali. Ma le divide il rapporto con il rispettivo stato nazionale.

Un giovane dottore di ricerca dell’università corsa di Corte, Lorenzo Di Stefano, che ha analizzato un versante della storia politica del novecento collocato nei due grandi contesti insulari mediterranei, ha prodotto un denso volume edito da Unicopli. Concentrandolo  sulla storia  parallela di due partiti, dei loro uomini e delle loro scelte: Il Pci in Sardegna, il Pcf in Corsica e l’identità insulare. 1920-1991

Lo ha scritto, con ogni evidenza, perché sospinto dalla consapevolezza amara nel vedere la storia politica espulsa dal dibattito politico per essere sostituita – Ricciardi, 2021 – da amabili chiacchiere sul passato. Ha scelto inoltre di seguire l’impronta gramsciana a proposito dell’approccio metodologico nella storia dei partiti politici, e che ispira le ragioni profonde di questo lavoro: Cosa sarà la storia di un partito? Sarà la mera narrazione della vita interna di un’organizzazione politica? Come essa nasce, i primi gruppi che la costituiscono, le polemiche ideologiche attraverso cui si forma il suo programma e la sua concezione del mondo e della vita? Si tratterebbe, in tal caso della storia di ristretti gruppi intellettuali e talvolta della biografia politica di una singola individualità. La cornice del quadro dovrà, adunque, essere più vasta e comprensiva. Si dovrà fare la storia di una determinata massa di uomini che avrà seguito i promotori, li avrà sorretti con la sua fiducia, con la sua lealtà. (Gramsci, Quaderni dal carcere, quaderno 13).

Così vicini dunque, ma anche così lontani. Con questa chiave di lettura l’autore prende in esame le storie parallele dei comunisti di Sardegna e Corsica. Raccontando vicende e biografie esemplari che hanno fatto la storia delle due isole ma che corrono su  binari che,  raramente, si sono incontrati. Una curiosa incomunicabilità sulla quale ha pesato certo la storia complessiva dei partiti nazionali che nel corso di una lunghissima storia – orrendamente strappata quella del Pci, ancora in viaggio quella del Pcf – hanno seguito traiettorie frequentemente diverse.

Storie e insediamenti politici ed elettorali differenti hanno dunque plasmato in modo originale -su strategia, linguaggio, insediamenti, organizzazione –  i due partiti fratelli. Originalità difesa orgogliosamente e portata assai avanti dal Pci che divenne il più forte partito comunista del mondo capitalistico.

Sono diversi, per formazione e storia, anche i rispettivi pantheon.

Il Pci ha avuto Gramsci, Togliatti e Berlinguer. Ha elaborato strategie e percorso traiettorie innovative, dal partito nuovo alla via Italiana al socialismo, dal compromesso storico all’eurocomunismo sino all’alternativa democratica. Scelte che presupponevano  strategie di assoluta autonomia. Il Pci in uno stato debole come quello italiano, che ha contribuito a plasmare nell’età repubblicana, a sua volta si è sostituito ad esso più volte, per salvare la Repubblica.

Il Pcf, partito glorioso cardine della lotta di liberazione antinazista, ha avuto come leader Thorez, Waldeck Rochet, Marchais ponendosi come continuatore degli ideali della Rivoluzione francese e della Comune di Parigi. E partecipando anche a esperienze di governo.

Diversità che hanno favorito, sin dall’inizio, un processo di allontanamento più che di fratellanza politica dovuto anche ai rispettivi processi di costruzione delle identità nazionali e supportata anche dalla rivalità italo francese di fine Ottocento e dell’invasione fascista dell’isola (novembre 1942-settembre 1943). Non è un caso, nota l’autore, che in Corsica i termini di italianità-irredentismo-fascismo “sono amalgamati”.

C’è da aggiungere che contro entrambi i partiti, anche in Sardegna e in Corsica, si è scatenata la feroce repressione fascista e, dopo la Liberazione, la discriminazione imposta dalla Guerra Fredda.

Il libro ha una notevole originalità e una certa importante utilità nel mettere a confronto, senza però mai banalizzare, la storia, i dati organizzativi e quelli elettorali dei due partiti. Legandone il destino alle dinamiche delle varie stagioni storiche (i tornanti li definisce frequentemente l’autore) e dal complesso quadro sociale e istituzionale (da approfondire forse il fallimento dell’Eurocomunismo, proprio per le timidezze di Marchais nei confronti dell’Urss).

Alcuni esempi. Nella fase aurorale del Pci nel 1921, la Sardegna che ha vissuto il movimento di massa “sardista” dei reduci è segnata anche dalla presenza di solidi nuclei del movimento operaio: nel primo trimestre lavorano quasi 11mila minatori nel Sulcis -Iglesiente (calati nello stesso mese di settembre a 3425). La Corsica è invece alle prese con una dominante politica dei clan familistici che organizzano il consenso elettorale, a volta cavalcando l’indipendentismo che, ad esempio col giornale A muvra, sposano apertamente il fascismo.

Entrambi i partiti si trovano nel corso della loro storia a fare i conti con i temi dell’autonomia e dell’identità. Entramb,  con approcci e strade diverse, si rapportano con queste tendenze all’interno di una dimensione nazionale. L’elaborazione dei comunisti italiani parte da molto lontano e si nutre di analisi e svolte. Il giovane Pcd’I sin dai suoi primi anni di vita denuncia una Sardegna impoverita dall’unità d’Italia costruita dalle classi dominanti e amalgamata da una storiografia di corte sabauda, dunque “falsa”. Il concetto di classe, l’ alleanza tra operai e contadini, il rifiuto di un sardismo ferocemente anticomunista segnano gli anni iniziali del partito che, tuttavia, ben inserisce la questione sarda nella questione meridionale, e già con Togliatti parla di “Irlande italiane”  fino a terrorizzare una “repubblica soviettista” in Sardegna. Sotto i colpi del fascismo trionfante e grazie alla nuova direzione gramsciana liberato da scorie settarie il partito apre ai sardisti (carteggio di Grieco per una base di azione su nazionalizzazione miniere e esproprio delle terre e confronto  Gramsci-Lussu).

Di Stefano ricorda l’elemento di base della politica comunista sul meridionalismo e il blocco agrario citando Palmiro Togliatti a proposito della definizione gobettiana del Risorgimento  come “rivoluzione fallita”. Secondo il leader comunista si tratta di un errore, che consiste “nella contrapposizione astratta tra ciò che avvenne […] e ciò che sarebbe potuto avvenire, secondo uno schema ideologico e storico preconcetto, di cui non si esamina se corrispondesse alla situazione di quel tempo, se ne esistessero le condizioni di realizzabilità”.

Definizione che dovrebbe mettere a tacere gli Indiana Jones della storia, alla ricerca di “ritardi” visti sempre con gli occhiali, spesso deformanti, delle esigenze contingenti dell’oggi.

Tra le figure ispiratrici del Pcf corso, accanto a Sambuccio D’Alando, condottiero antifeudale della metà del XIV secolo e a Sampiero Corso (antigenovese del XVI secolo) ci sono Luigi Giafferi, Pasquale Paoli (nonostante il tradimento della Francia rivoluzionaria e l’alleanza con i “tiranni” inglesi) pur di non lasciare u babbu di a patria nelle mani degli irredentisti. E c’è anche però il convenzionale del 1792 Cristofano Saliceti che unisce “la piccola e grande patria, Corsica e Francia rivoluzionaria”). Saliceti ebbe stretti rapporti con i protagonisti della sarda rivoluzione di fine Settecento.

I comunisti corsi daranno un notevole e coraggioso contributo alla lotta antinazista sul loro suolo. Quelli sardi lo fecero in Spagna e in Continente, partecipando attivamente con personalità di primo piano alla clandestinità e alla Resistenza (Spano, Polano e molti altri).

Il libro scorre agevolmente nella trattazione delle diverse situazioni economiche e politiche. In Sardegna all’indomani della Liberazione il Pci sotto l’impulso di Togliatti lavora per diventare il partito del popolo sardo e dell’autonomia. Non si tratta di un processo indolore e privo di asprezze e procede di pari passo con la costruzione del “partito nuovo”.

Alla prima conferenza di Oristano (5 settembre 1943)  davanti a settanta delegati di 25 sezioni viene eletta la prima segreteria formata da Giuseppe Tamponi, Andrea Lentini e Giuseppe Frongia. Quadri coraggiosi, usciti dalla clandestinità e dalle persecuzioni che faticano a liberarsi – come poteva essere altrimenti? – da “elementi di settarismo”. Nel gennaio del 1944 scoppiano moti del pane a Sassari (con l’arresto di decine di giovani comunisti guidati da Enrico Berlinguer e Nino Manca) e a Ozieri. Nel marzo dello stesso anno si celebra il I congresso regionale a Iglesias che elegge una segreteria formata da Antonio Dore – segretario – Giovanni Lay e Renzo Laconi. Quell’anno gli iscritti sono 19 mila, di cui più della metà nel Cagliaritano, in particolare nel bacino minerario.

Il Pci diventa il riferimento di quel vastissimo movimento di massa per la terra che scuoterà la Sardegna tra il 1944 e il 1950. Uno scontro acuto, che porterà a un rafforzamento del partito e della Cgil sottoposti a una feroce repressione poliziesca. Per citare un esempio di quell’ampio movimento sociale – che culminò nel maggio del 1950 nel grande congresso del popolo sardo, base della lotta per la Rinascita – è bene ricordare nell’ottobre del 1948 il grande sciopero dei minatori che durò 72 giorni.

Interessante è il paragone elettorale tra le due isole. Nell’immediato dopoguerra il Pcf in Corsica ottiene sino al 32% dei voti. Il Pci passerà dal 12.5 del 1946 al 21.2 del 1953.

Significativa è anche la diversa mobilità dei quadri. Il Pci sardo ebbe numerosi segretari dal 1945 al 1991: oltre a quelli citati aggiungiamo Velio Spano, Renzo Laconi, Umberto Cardia, Mario Birardi, Gavino Angius, Mario Pani, Pier Sandro Scano e Salvatore Cherchi. Il Pcf in Corsica ebbe un solo segretario dal 1948 al 1982: Albert Stefanini.

Il libro è sostenuto da una notevole documentazione e ricchezza di dati. E’ utile citare, in conclusione, quelli organizzativi dei due partiti nei tempi più vicini ai nostri: circa 30 mila iscritti al Pci tra il 1963 e il 1970, in crescita nel 1977 vicini  ai 40 mila per scendere a circa 32 mila nel 1989. Nel 1978 i comunisti corsi potevano contare su 3746 aderenti.

Sull’autonomia, assunta come questione centrale da entrambi i partiti (nel Pci sin dai tempi della segreteria di Togliatti che non mancò di formulare riserve sulla tiepidezza del Pci sardo dell’immediato dopoguerra), e sulla questione della lingua (dove si sono confrontate e scontrate sensibilità) l’autore descrive le differenti posizioni interne in pagine interessanti  pur nella necessaria sintesi. Arrivando sino alle esperienze di governo dei comunisti sardi insieme ai sardisti.

Lorenzo Di Stefano, Il Pci in Sardegna, il Pcf in Corsica e l’identità insulare (1920-1991),  (Unicopli, Milano, 2023)

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