Appunti referendari: lo chef in fuga, i ricatti della finanza per la “riforma” col buco e i nipotini di Achille Lauro

26/02/2016 Roma, il Presidente del Consiglio incontra il Presidente della Commissione Europea, nella foto Matteo Renzi e Jean Claude Juncker
Facebooktwittergoogle_pluspinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_pluspinterestlinkedinmail

di Vindice Lecis

Mentre siamo in ansia per il destino del ristoratore modenese Massimo Bottura che minaccia di chiudere la sua esclusivissima Osteria francescana e fuggire negli Usa se vincerà il No, ci consoliamo con altre notizie, quelle che vengono diffuse a reti e edicole unificate. Ecco allora alcuni appunti sparsi su una campagna referendaria dove i sostenitori del Si possono contare su 6 milioni di euro di budget, sul sostegno del partito di governo con annessi tour elettorali di tutti i suoi ministri a spese dei contribuenti, sulla quasi totalità dei giornali (escluso Il Fatto, Il Manifesto, il Giornale) e di tutte le reti televisive (Rai e Mediaset), compresi di telegiornali, talk show e previsioni del tempo camuffate.

La riforma col buco. Sono molte le cose che i “costituenti” (scusate) non hanno previsto nel nuovo Senato del dopolavoro. Ad esempio, che nei cinque Statuti speciali di altrettanti Regioni non è contemplato l’ufficio di consigliere sovrapposto a quello di parlamentare. E’ possibile che nessun rappresentante di Sardegna, Sicilia, Val d’Aosta, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige con relative province autonome sieda sui velluti rossi. Il dibattito è accesissimo. Per il senatore del Pd Felice Casson (del Pd) il Senato sarebbe così incompleto e “per le Regioni interessate occorrerà una modifica degli statuti che avverrà con legge costituzionale su intesa con le Regioni stesse”. Tesi condivisa dal professor Massimo Villone sul Manifesto: “La domanda è: può la Renzi-Boschi modificare gli Statuti speciali? In apparenza sì, perché è legge costituzionale come gli statuti speciali e dunque – essendo successiva – entrando in vigore con la vittoria del Sì li modificherebbe cancellando l’incompatibilità. Ma non è così. Perché pur essendo gli statuti speciali una legge costituzionale come la Renzi-Boschi sono modificabili solo con un procedimento particolare che aggiunge a quello previsto dall’articolo 138 della Costituzione il parere obbligatorio del consiglio regionale ed esclude il referendum nazionale nel caso di approvazione delle modifiche”. Ammettendo che ciò sia fattibile passerebbe almeno un anno. Sempre Casson sul Fatto quotidiano avverte: “Ma chi la fa? Il Parlamento attuale in almeno un anno. Nell’attesa il Senato non potrebbe entrare in funzione. La legislatura finisce nel 2018”.

La riforma è un concentrato di centralismo statale con un ritorno agli Anni Cinquanta e giganteschi passi indietro nei confronti del dibattito e dell’esperienza autonomistica. Lo ha spiegato il professor Andrea Pubusa, dell’Università di Cagliari: “La ricomparsa dell’interesse nazionale come limite per le Regioni ordinarie nella clausola di supremazia speciale e del corrispettivo potere di interferenza statale, fa sì, automaticamente, che l’interesse nazionale ridivenga operativo come limite ordinamentale anche nei confronti delle Regioni speciali. Vale dunque anche per la Sardegna. Non c’è “clausola di garanzia” che tenga” (Sardinia post).

Se l’ha ideata Gelli è davvero un’ideona per bloccare la democrazia rappresentativa.

Chi siete, dove andate? Un fiorino. Meglio: una scarpa un voto o, a scelta, un pacco di pasta per un Sì. Succedeva con dignità maggiore ai tempi di Achille Lauro, O’ Comandante. Mi domando dove può accadere che un governo dilati al massimo la convocazione di una consultazione referendaria per poter approvare pochi giorni prima una manovra economica affollata di misure una tantum, clientelari, settoriali. Un provvedimento che vale 27 miliardi e individua in una crescita del Pil all’1% il suo obiettivo senza chiarezza su coperture e risorse certe. Ma il dato curioso, che conferma il talento di Renzi per la furba disinvoltura, è che il via libera sia stato dato dalla sola Camera dei deputati. Il Senato voterà infatti dopo il 4 dicembre. Era basilare per Renzi poter fare una manovra elettorale. Convocare i giornalisti, proiettare slide, annunciare misure roboanti, promettere effetti pirotecnici sull’economia. La manovra è scoppiettante, che quelle creative di Tremonti impallidiscono al confronto. Su queste bancarelle si trova di tutto: dalla sterilizzazione dell’Iva (dovuta) al taglio dell’Ires, dalla macchinosa sanatoria delle cartelle esattoriali all’annichilimento dei controlli fiscali, sino a una nuova voluntary disclosure (4 miliardi previsti di entrate ma non se ne incasserà nemmeno uno e mezzo, e questo provocherà le clausole di salvaguardia con relativi aumenti). E poi mance e bonus come se piovesse a partire dai nuovi sgravi alle aziende. Naturalmente ne riparliamo dopo il voto.

Me ne vado, no resto. Si è perso il conto di tutte le giravolte di Renzi sulla sua permanenza a Palazzo Chigi. Aveva esordito con il famoso: “se perdo lascio la guida del governo e la politica”. Seguito a ruota da Boschi e Carbone. Aveva, qualche tempo dopo, derubricato questa decisione a “rimango con qualsiasi risultato” per timore di farli lessare. Ora ha fatto trapelare dai retroscenisti che, invece, potrebbe andarsene anche in caso di vittoria del Sì. Non si è capito però che cosa possa accadere in realtà. Renzi non sta prendendo infatti in considerazione la possibile vittoria del No. La clava della stabilità è l’arma che il premier sta brandendo aiutato dalle irresponsabili grida diffuse da organismi internazionali a proposito sulle banche.

L’Italia giardino di casa della finanza e dei governi stranieri. Sin dalle prime elezioni democratiche, il nostro Paese ha dovuto subire le pressioni sull’elettorato (blandizie, minacce, ricatti) e i pronunciamenti a favore dei governi in carica, prima Dc e ora quello attuale. Dal Piano Marshall del 1947, quando gli Usa imposero a De Gasperi di rompere l’unità antifascista con Pci e Psi, sino all’ultima cena di Obama con Renzi che portò al fatidico pronunciamento per il Sì la storia è lastricata di vere e proprie ingerenze. Dopo quella statunitense ecco arrivare nuovi sostenitori fino alla Merkel con suo falco ultraliberista Schauble (ma non ringhiava contro Renzi?), al presidente della Commissione europea Junker, all’Ocse e a cancellerie di varia pezzatura.

Ma di questi tempi i governi contano meno della grande finanza internazionale ed ecco che allora la Bce fa sapere che è pronta a intervenire in caso di vittoria del No (forse pensa di inondare le banche di soldi freschi). Tifano per Matteo, Jp Morgan e molta stampa internazionale, da quella liberal alla paella (El Pais) ai giornali dell’establishment dal Financial Times a Wal Street journal. Questi pronunciamenti si aggiungono a quelli nostrani di Confindustria e Marchionne. Vale a dire che tutta la razza padrona (persino quel Vacchi tatuato e ballerino) sostengono il suo governo. E  che diamine: 10 miliardi di sgravi e via l’articolo 18 valgono bene un sì.

Facebooktwittergoogle_pluspinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_pluspinterestlinkedinmail

Be the first to comment on "Appunti referendari: lo chef in fuga, i ricatti della finanza per la “riforma” col buco e i nipotini di Achille Lauro"

Leave a comment