Il nuovo sfregio di Pansa alla Resistenza: riscrivere la storia assolve il fascismo

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di Vindice Lecis

“La storia della Resistenza come la conosciamo è quasi del tutto falsa, e va riscritta da cima a fondo”. E’ il solito livido, rancoroso, poco convincente Giampaolo Pansa, il principe dei divulgatori revisionisti, a lanciarsi in una nuova crociata contro la lotta di Liberazione. Lo fa in una consueta e generosa intervista al Corriere della Sera del 20 febbraio concessa ad Aldo Cazzullo (che a un certo punto domanda: resto convinto che la resistenza non appartenga a una fazione, neppure a quella che ne ha sequestrato la memoria. ma di chi parli Aldo?).

Lo spunto per la nuova aggressione di Pansa alla Resistenza, alla sua storia e alla sua attualità arriva, manco a dirlo da un suo nuovo libro appena stampato che prosegue nell’ampia e fantasiosa ricostruzione storica senza carte, priva di documenti e di ricerca. Uccidete il comandante Bianco, edito da Rizzoli, è il titolo del nuovo saggio del nostro, sulla scia dei best sellers truculenti e annegati nel cosiddetto sangue dei vinti.

Pansa si è affidato una missione nella vita: distruggere non tanto il mito della Resistenza quanto il suo peso reale nella storia d’Italia. Il giornalista ha così trascorso gli ultimi vent’anni a rivalutare gli aguzzini di Salò, a riabilitare i carnefici contrapposti a partigiani descritti invece come truci, efferati e crudeli, dediti a preparare l’insurrezione bolscevica. Pansa sempre più gioca a carte scoperte e in questa intervista lo afferma chiaramente: il problema dello schieramento antifascista è che c’erano i comunisti. la colpa sta nel fatto che quel fronte era “dominato dall’unico partitio che si era sempre opposto al regime di Mussolini: il partito comunista”.

In ogni pagina dei suoi libri emerge il livore contro la presenza – vitale e decisiva ma non certo l’unica – del Pci. Dai suoi dirigenti, manco a dirlo servi di Mosca e prigionieri di illusioni rivoluzionarie, sono arrivati secondo Pansa gli ordini per scrivere le pagine più efferate: il cosiddetto triangolo della morte o il regolamento di conti contro i partigiani bianchi o badogliani.

Anche in questo libro probabilmente non si smentirà. Racconta, secondo le anticipazioni pubblicate in tutti i giornali, di Aldo Gastaldi, nome di battaglia Bisagno, l’unico comandante partigiano non comunista della III divisione partigiana Cichero, operante in Liguria. Bisagno morì nel maggio del 1945, in un incidente stradale. Ma Pansa, senza prove, è convinto che il comandante sia stato drogato e la sua morte non sia stata accidentale. Purtroppo zero carte, zero prove.

Il problema sta proprio qui. Nel considerare verità storica quel sensazionalismo e quella furia iconoclasta che da anni divora il nostro saggista del rancore, che ha descritto la Resistenza italiana come una sorta di grande mattatoio privo di quella moralità di cui parla, ad esempio, lo storico Claudio Pavone. Il paravento della guerra civile, è il pretesto per una riscrittura scandalistico-revisionista, sostanzialmente falsa, del periodo resistenziale. Che fu continuazione ideale del Risorgimento italiano e consentì il riscatto del Paese dalla vergogna fascista. Che fu lotta di liberazione nazionale dai nazisti e dai fascisti. Ma anche, certamente, forma di riscatto delle classi lavoratrici che lottarono per costruire una società che chiudesse sia col fascismo che con le vecchie pastoie liberali. Lotta unitaria delle forze politiche che rinascevano – ad eccezione dei comunisti, unici presenti in clandestinità durante la notte del fascismo e per questo perseguitati a migliaia – e caratterizzata anche dall’impegno delle forze armate.

I partigiani hanno pagato un contributo altissimo per la conquista della democrazia e per inseguire l’ideale di un’Italia nuova. E certo la lotta armata non fu una passeggiata. Con 220 mila soldati tedeschi e repubblichini, i partigiani fecero un miracolo, opponendo in poco tempo un’organizzazione articolata in divisioni, brigate e squadre operanti in montagna e pianura. Costituirono le Sap (squadre di azione partigiana) e i Gap (gruppi di azione patriottica), i Gruppi di difesa della donna e il Fronte della Gioventù. Dispiace ricordare a Pansa che i comunisti furono comunque l’ossatura di quel vasto movimento armato e di popolo. Se ne faccia una ragione.

Le Brigate d’assalto Garibaldi, promosse dal Pci di Togliatti, Longo e Secchia, furono l’assoluta maggioranza delle forze resistenziali (ma non tutti, naturalmente, erano comunisti) con 1090 brigate, 42 mila caduti, 18 mila mutilati e invalidi. Con loro combatterono le Brigate Gl, quelle Mattetotti, le Fiamme Verdi, le Mazzini. I Gap – promossi dal comitato militare comunista – sin dal 1943 colpirono i fascisti e i nazisti dove questi si sentivano più al sicuro: nelle retrovie e nelle città. L’idea fu di Ilio Barontini e nei Gap combatterono personaggi come Giovanni Pesce, Ateo Garemi, Egisto Rubini, ma anche Giorgio Amendola, Antonello Trombadori, Dante di Nanni. Oltre il 50% degli effettivi dei Gap cadde in battaglia o fucilato dopo le torture.

A Pansa bisogna solo ricordare che il suo revisionismo senza ricerca, ha agevolato la formazione di una “base culturale” per equiparare i carnefici nazifasciste alle loro vittime, i custodi delle camere a gas e della soluzione finale a quanti si batterono, invece, per la libertà e la democrazia. Ecco perché è immorale sfregiare la Resistenza con i suoi 240.969 combattenti, i 44.720 caduti, i 21.168 mutilati o invalidi, i 124.813 patrioti che ebbero 9980 caduti e 412 mutilati.

Non c’e retorica in questo ricordo, solo gratitudine eterna. Grazie alle donne e agli uomini della Resistenza. Sempre

ps1: se i fascisti stanno rialzando la testa è perché il revisionismo storico e quello di stato hanno raggiunto in Italia livelli di vergogna estrema. La Repubblica non è neutra, la Repubblica è antifascista

ps2: Giampaolo Pansa? “Un pazzo, un mascalzone, un falsario, un mentitore”. Così Giorgio Bocca definì“Il sangue dei vinti“, un libro “vergognoso di un voltagabbana”.

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