Sassari e l’eredità di tre lustri di centro-sinistra

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di Vindice Lecis

La lunga stagione di giunte rosse che hanno retto le amministrazioni locali italiane nel corso di molti decenni – in tantissimi casi anche per un intero settantennio – ha lasciato in eredità alle città un gigantesco patrimonio di welfare, servizi pubblici, qualità della vita e offerta e politica culturale (che non è una parolaccia), di tutela dell’ambiente. Un’eredità di buon governo legata, inscindibilmente, alla partecipazione dei cittadini.

Non sono mancati però errori, alcuni molto gravi, in particolare nel momento in cui si trasformava l’idea stessa della sinistra come forza di cambiamento e si assumevano come paradigma i modelli del liberismo (e si copiavano i palazzinari): l’idea cioè di uno sviluppo illimitato, il consumo del suolo in modo dissennato, l’esternalizzazione dei servizi pubblici con relative privatizzazioni. E anche quell’idea distorta di una certa urbanistica progressista di voler decentrare i servizi e uffici al di fuori dei centri storici facendoli diventare musei, la follia delle concessioni illimitate di grandi superifici a favore della grande distribuzione organizzata. Da ultimo, la mazzata, è arrivata con le politiche di compressione della spesa e dei pareggi di bilancio che hanno colpito tutti indiscriminatamente, ma in particolare le amministrazioni virtuose.

Alcuni lustri di sinistra-centro e centro-sinistra che cosa hanno lasciato a Sassari? L’argomento meriterebbe una lunga discussione, dati alla mano. Ma ora che quella esperienza sta giungendo definitivamente al capolinea (leggo sondaggi che certamente non si discostano molto dalla realtà e interpretano un comune sentire, anche confuso, ma reale) vien da chiedersi: quale disegno strategico viene a mancare? Quali opere sono state lasciate in eredità? Quali intuizioni di “sviluppo” o meglio, quali caratteristiche culturali, economiche, sociali sono state valorizzate e rese per così dire simboliche? Io dico: niente o poco più.

Intendiamoci: Sassari non ha mai vissuto età dell’oro, è bene ribadirlo. E paga da molti decenni la miopia – pur con eccezioni – di classi dirigenti (e di famiglie dominanti dell’alta borghesia terriera, dell’edilizia e delle professioni). A volte ha intuito le sue vocazioni ma non le ha mai sfruttate decorosamente. L’industrializzazione basata sulle piccole e medie imprese si è arenata in un agglomerato di capannoni di quel gigantesco spazio che sta per fagocitare ormai la città residenziale e che si fatica a definire luogo di attività produttive e di trasformazione. Se quella doveva essere la carta, è stata giocata male diventando quel luogo – Predda Niedda – un’attrazione disperante per le imprese e aziende che hanno preferito abbandonare le strade sassaresi.

Il centro storico ha smesso di pulsare da tempo ed è vittima di una fuga di abitanti e di attività produttive. Ho perso il conto di piani, progetti, studi, analisi che ho letto e visto in decenni per rilanciare quelle attività e quella vita. Il risultato è stato, invece, l’avanzata del degrado, l’emergenza legata all’ordine pubblico, la formazione di ghetti, l’emorragia di abitanti e di quelle attività legate all’artigianato.

Non c’è bisogno di essere grandi esperti per capire che l’enorme distesa di centri commerciali fuori dalla città tra svincoli e sottopassi, sia diventata il nuovo polo attrattivo economico-antropologico che ha svuotato il centro di molte delle sue prerogative. Che nel corso dei decenni – i processi sono lunghi e quasi mai legati alla contingenza politica – il centro è stato progressivamente abbandonato dai sassaresi perché considerato disagiato. Gli aiuti, parziali ed episodici, legati a piani e sgravi, ci sono stati ma sono limitati e non strutturali.

“Perché non mi vergogno di come mi raccontano – ha detto un abitante del centro storico a un’assemblea di pochi giorni fa – io mi sento offeso da come il centro è ridotto. Rifacciamo le strade, le facciate, diamo i soldi a chi nel centro ci vive, ci crede. E la gente tornerà”. Bisogna spiegarlo a qualche intellettuale radicaleggiante.

Come bisognerà non chiudere gli occhi – e questo lo fanno molto a sinistra – sulla criminalità. Parlarne non è lesa maestà, ideologia securitaria o altre scempiaggini. Mi sembra di risentire i benpensanti quando, in alcune zone del Paese (dalla Sicilia all’Emilia alla Lombardia) negavano l’incidenza della mafia. Un crimine su tre – secondo una ricerca dell’urbanista Francesca Zinchiri – negli ultimi dieci anni si consuma nel centro storico. Prendiamone atto e lavoriamo per politiche sociali, economiche di inclusione. Ma anche per azioni di prevenzione e repressione. A meno che non si consideri normale, quasi caratteristico, continuare a subire la piccola e media criminalità.

Non c’è solo il centro storico. Se guardiamo alla situazione odierna e la confrontiamo con le dichiarazioni programmatiche dell’attuale sindaco Sanna notiamo una cesura tra il promesso e il non fatto: cittadella giudiziaria, centro intermodale, fruizione ex mattatoio per citare alcune questioni aperte. Mi aspetto le repliche: su questo abbiamo fatto la convenzione, su quell’altro è fallita l’impresa etc. Sta di fatto che queste cose centrali sono ferme.

La crisi delle classi dirigenti – molti non vogliono sentirselo dire – parte da lontano. E non si tratta solo della crisi delle grandi famiglie che, a volte, sono state raffigurate come motori di chissà quale sviluppo e di  scintillanti intuizioni se non per rivolgere loro  l’omaggio rituale del bacio della pantofola perché ricche, facoltose e di successo. La crisi è qualcosa che riguarda la vocazione, l’identità e la fantasia. E aggiungerei l’audacia. Non c’è traccia di tutto questo.

Qui non si tratta di progettare piramidi al Louvre, ponti, centri direzionali scintillanti. Ma di capire quali siano le nostre sponde. Le cose da fare. Le vocazioni, appunto. Se è vero che siamo stati travolti dalla crisi del petrolchimico, un disastro per l’economia, non possiamo nemmeno affermare che siamo stati una città operaia che abbia dipeso le sue sorti dalla monocultura chimica. Ma nulla è stato fatto per sostituire quella risorsa. E i guai si sentono: senza industria non andiamo da nessuna parte. Sassari aveva tante e tali peculiarità che però ha messo in archivio o dilapidato: la piccola industria di trasformazione, l’agricoltura orticola, il piccolo commercio, l’artigianato di qualità. Tutte vocazioni storiche messe ai margini da una globalizzazione spersonalizzante e di interessi economici legati a un’edilizia vorace e a un’urbanistica divorante.

Ma non tutto riguarda una singola amministrazione. E’ un territorio ad essere ai margini e nessuna architettura istituzionale potrà rianimarlo senza scelte chiare. La sanità sassarese – lo dicono i pazienti, lo denunciano i lavoratori di quel comparto – versa in condizioni penose: liste d’attesa enormi e senza fine, pronto soccorso al collasso, persino mancanza di reagenti. Una sanità incastellata in una mega azienda mista, colosso burocratico. A questo si aggiunge l’aeroporto di Alghero. La privatizzazione sarebbe dovuta servire a chissà quale rilancio. A oggi i dati sono: il deserto, la cassa integrazione e la fuga di Ryan Air.

Il visitador Martin Carrillo, inviato in Sardegna nel 1611 dal re di Spagna Filippo III, definiva Sassari “ciutad mas regalada de jardines, frutas y de fuente” che non hanno rivali in tutto il regno. Carrillo, un deciso canonico della cattedrale di Saragoza, spiegava che “il clima è sano, la gente bellicosa” e in città c’era “mucha nobleza, senores y barones”. I sassaresi hanno “acuto ingegno, sono portati per le lettere e le sanno e le apprendono con molta facilità” ma soprattutto sono “molto abili nell’uso delle armi, di animo e cuore coraggioso”. Bisognerebbe far pesare questa antica forza anche nel confronto con la Regione per la tutela di un territorio.

Quanto ne è rimasto di quel “corazon osado”?

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