I maggiordomi di Renzi: il blairismo alle vongole di Pisapia e Zedda

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di Vindice Lecis

Essere chiamati maggiordomi di Renzi, specialmente dopo che lo statista di Rignano ha subito la gigantesca sconfitta referendaria che lo ha costretto a lasciare (momentaneamente?) Palazzo Chigi è, oggi, accusa bruciante, quasi da vergognarsi. Per intenderci, suona come il socialdemocratico! scagliato come un epiteto nelle antiche e sane discussioni tra comunisti. Che cosa è accaduto? E chi sono i maggiordomi di Renzi?

Andiamo con ordine. Parliamo anzitutto e principalmente di Sinistra italiana (un partito nuovo, un nuovo partito?), per ora solo una sigla, sorta dalle ceneri di Sel e col contributo di esperienze diverse – provenienti da rotture dentro il Pd – che però rischia di soffocare nella culla. Il congresso fondativo di febbraio, presentato come l’ennesima, gigantesca, opportunità per la sinistra italiana ormai orfana da decenni, nasce infatti sotto i cattivi auspici di una scalata, di un’Opa (offerta pubblica di acquisto) maligna che ne sta già facendo deragliare le ambizioni e le prospettive.

Chi sta cercando di conquistare dunque Sinistra Italiana? Si tratta delle esangui truppe, ma ben coccolate dall’informazione, di Pisapia e Zedda – autoesclusi dal processo fondativo – che stanno tentando di conquistare con un sedicente Campo Progressista l’egemonia dentro Si. Ci stanno riuscendo, sintomo di una permeabilità della stessa esperienza di Sel, incrocio mal riuscito – come tutte le mescolanze post ideologiche dai Ds al Pd – di esperienze diverse (ex comunisti, ex verdi, ex socialisti). Il primo incredibile paradosso è che due uomini che hanno votato Sì al referendum vogliono mettere le mani su una creatura che si muove già con affanno.

Di fronte a uno sforzo di analisi e tesi congressuali di buon livello – pensiamo al Fassina della sovranità finanziaria e della critica all’Euro, per dirne una – la quasi neonata formazione è invece costretta a discutere solo del rapporto col Pd. Anzi, dell’alleanza obbligata col partito di Renzi. Sembra che senza i Dem, il sole non sorga l’indomani, posizione molto più a destra di Bersani e Speranza per non parlare di D’Alema.

Nelle analisi di Pisapia e Zedda emerge un blairismo fuori tempo massimo, un cinismo manovriero che occhieggia al trasformisimo, un politicismo tutto assessori e quote in lista. Insomma: fuori Verdini e Alfano e dentro noi. Eppure il Campo progressista sta già dando le carte, complice una stampa liberal che ha la missione di voler scegliersi i gruppi dirigenti più manovrabili (dalle scalate fallite contro Berlinguer, all’odio anti dalemiano, alla sfacciata simpatia per Veltroni sino all’acquiscenza verso Renzi). Stanno orientando il prossimo congresso contando, dentro i gruppi parlamentari, di una pattuglia che vuole l’alleanza col Pd.

Nei ragionamenti di Pisapia e di coloro che dentro l’ex Sel sono sensibili alle sue lusinghe, non c’è un’analisi della situazione dell’Italia e né un’idea di trasformazione. Manca persino l’elenco delle sciagurate politiche messe in campo da Renzi in questo triennio: jobs act, buona scuola, attacco alla Costituzione, subalternità effettiva al rigore tedesco al netto delle pagliacciate ad uso del telespettatore.

Nonostante Renzi dunque, Pisapia e Zedda vogliono l’intesa col suo Pd. Vogliono farne la stampella”di sinistra”, illudendosi di poterlo condizionare. Hanno messo nel conto che la loro politica potrà servire per conquistare un po’ di posti in lista, persino qualche assessorato alla cultura. Argomenti che sono musica per la pattuglia governista. Ma si sono assunti il ruolo ingrato e odioso di essere i maggiordomi di Renzi e di danneggiare la possibilità di costruire alternative di idee e di programmi, senza le quali un partito non ha ragione di esistere. Rassegnati cioè, ad essere gli Alfano della “sinistra”.

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