Storia di un fallimento: quando la sinistra insegue la destra e frequenta i salotti buoni (e non capisce il populismo)

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di Vindice Lecis

La domanda è: come è potuto accadere che in Italia sia scomparsa di fatto la sinistra politica e che il movimento operaio organizzato, così veniva definito, non abbia più una rappresentanza in Parlamento e nel Paese? Quale catastrofe ha determinato un arretramento così ampio e generazionale di una tradizione che, fino a venticinque anni fa, era ancora ben viva – nella società, nei sogni, nelle battaglie – e persino materia di studio in consessi internazionali. Come è stato possibile, infine, che la trasformazione del Pci in altre formazioni – mi fermerei fino ai Ds, poi è un’altra storia – abbia rapidamente consentito lo sfarinamento e la liquidazione di una tradizione, quella socialista e, in particolare, quella comunista, che aveva innervato la vita dell’Italia repubblicana?

Il rapporto tra l’elaborazione politica e la ricerca verso approdi originali propria del periodo berlingueriano del Pci non deve essere anzitutto scambiata per abbandono di idealità proprie della trasformazione in senso socialista. O il germe della ineluttabile crisi successiva. Il continuo e tormentato rovello di Berlinguer e del Pci non voleva giungere all’approdo verso una socialdemocratizzazione del partito o a un’eutanasia. Era quella, invece, la metodologia utilizzata e praticata per un continuo adeguamento alla società e alla realtà. Alla base della via italiana c’era quel senso della complessità e originalità del processo rivoluzionario e della transizione al socialismo. Ricerca per costruire che cosa? Di una via nuova che nel Berlinguer degli anni Settanta portò a prefigurare l’introduzione nel meccanismo economico dell’Italia, Paese capitalista, di “elementi di socialismo” base della strategia del compromesso storico, non semplice proposta di governo, bensì una linea unitaria per la trasformazione democratica della società.

Che sciocchezza, dunque, identificare una lontana parentela tra il Pd d’oggi – partito che è fuoriuscito totalmente dal solco della sinistra col chiodo fisso della governabilità a tutti i costi – col senso di responsabilità e con la disponibilità del vecchio Pci ad assumersi responsabilità di governo. Ma ritorna per questo l’angoscioso interrogativo del perché un partito che ha oscillato tra il 27 e il 34% dei voti con un milione e ottocento mila iscritti abbia potuto dilapidare un patrimonio così vasto fino a disperderlo. Non certo per colpa della ricerca e dell’innovazione figlie della stagione berlingueriana, ma per lo spaventoso deficit culturale e il cinismo delle generazioni che hanno gestito il partito dopo la morte del leader comunista e la defenestrazione di Alessandro Natta.

La ricerca si trasformò presto in rincorsa modernista di pratiche di mera gestione del potere e dell’esistente. La caduta dei regimi dell’Est con il crollo del muro di Berlino, terrorizzò il gruppo dirigente del “nuovo Pci” – come presuntosamente di era autodefinito il partito di Occhetto – di finire travolto dalle macerie. Eppure il partito era ben attrezzato per adeguarsi alle dure necessità della realtà. Furono così accantonati Gramsci e Togliatti, oltre che Berlinguer (diventato qualcosa di irriconoscibile tra scalfarismo e veltronismo) che perseguivano la necessità di attenersi alla storicità assoluta dell’analisi. Che significava, per dirla con Paolo Spriano, “capacità di penetrare tutto quello che di storicamente nuovo si esercitava nel campo della base economica della struttura intrecciato alle sovrastrutture”.

Il crollo di un muro lontano non avrebbe potuto produrre una Bolognina. Eppure è accaduto anche di peggio. Che dalla Bolognina, un’ansia timorosa pervase il corpo del partito e dei suoi dirigenti, trasformandosi in un vento maligno che, spirando con furia iconoclasta ha finito per  travolgere politiche, simboli, strutture, tradizione. In pratica ha divelto l’insediamento sociale della sinistra italiana. A ciò si è arrivati in tempi relativamente rapidi. Molto più velocemente di quanto i comunisti avevano speso per le proficue elaborazioni su democrazia e socialismo, austerità, terza via, eurocomunismo e distensione, alternativa democratica. Eppure il Pci, da Togliatti a Berlinguer, aveva seguito una linea chiarissima: che non erano possibili né modelli universali, né cattedre di ortodossia ideologica, né centri esclusivi di direzione politica” (Tesi per il XV congresso del Pci, 1979).

Dal Pds sino ai Ds è stato dunque un progressivo smottamento ideale e culturale. Un diventare altro da sè. Gruppi dirigenti alle prese con il cambio impresso nelle società dell’Est dalla dissoluzione dell’Unione sovietica e del blocco “socialista”, alla fine hanno guardato da un’altra parte. Lo hanno fatto per molte cause non imputabili solo alla debolezza, anche costretti a un’azione di ripiegamento per l’offensiva reazionaria e antioperaia nel mondo di Thatcher e Reagan. Hanno guardato però dalle parti del cosiddetto socialismo europeo che già però cambiava pelle. Dove si imponeva sempre più il modello di Blair il cui “socialismo” somigliava alla destra conservatrice.

Le tossine del blairismo sono entrate senza incontrare troppe resistenze nel molle corpo della “sinistra” continentale. La sua terza via ha alimentato il “darwinismo sociale” riaffermando una sudditanza ottusa all’imperialismo guerrafondaio  statunitense. L’ex premier britannico, al quale si ispira Renzi, descriveva così la sua linea: “Questo mondo in rapida trasformazione è indifferente alla tradizione. Implacabile verso la fragilità. Irrispettoso delle valutazioni passate. Non ha consuetudine e prassi. E’ pieno di opportunità, ma solo per chi è pronto ad adattarsi, non si lamenta, è aperto, disponibile e capace di cambiare”.

Renzi è il frutto mediterraneo (grazie ai semi già piantati da Veltroni e da Prodi) di quella stagione che ha infettato la sinistra e l’ha fatta deragliare dalla sua missione storica, quella di ridurre le diseguaglianze e di costruire la giustizia sociale. L’ex premier italiano, ha ricordato Marco Cianca sul Corriere della Sera, già da anni è infatuato infatti del mito della velocità, “sorta di futurismo politico” , e di nuove coppie: avanti/indietro, innovazione/conservazione, movimento/stagnazione. Accantonato dunque il conflitto tra capitale e lavoro tutto si annega in un blairismo rimasticato, subalterno alla finanza e che apre la strada ai populismi. Dite, dunque: il jobs act è innovazione o conservazione? La devastazione costituzionale rientra nel concetto di avanti? E stare con Marchionne invece che con Landini è movimento?

La sinistra per fare la traversata nel deserto deve imparare da questo orribile ventennio con l’ambizione, senza timore né vergogna, di voler rappresentare le classi sociali subalterne. Che non sanno che farsene di spruzzate di diritti civili un tanto al chilo se vedono negato il loro diritto al lavoro, alla sanità, all’istruzione, a una vita dignitosa. Partire da qui per contrastare quello che Luciano Gallino chiamava finanzcapitalismo, l’Europa dei circoli più oltranzisti del rigore a senso unico e per la difesa dell’agibilità democratica messa in pericolo dalle pretese tecnocratiche.

E infine questa sinistra non abbia paura di farsi definire populista e fare invece il contrario della sinistra liberale, ottusa esecutrice dell’austerità e portavoce delle cosiddette elite, delle oligarchie: rivolgersi dunque ai lavoratori superando il politicamente corretto. Tanto, il capitale finanziario cammina con le proprie gambe, si fa beffe dei governi nazionali, è globale e sovrastatale. Che cosa hanno da perdere i diseredati, le masse popolari se non le proprie catene? Dite che è populismo?

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