Ottant’anni dopo la morte. La modernità di Gramsci, la sua attualità e la Sardegna

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di Vindice Lecis

Ottant’anni e non ci hai mai lasciati soli, Nino. Sei vivo e parli ancora a moltitudini. Antonio Gramsci moriva il 27 aprile 1937, ucciso dal fascismo mussoliniano che lo aveva imprigionato per impedire alle sue idee rivoluzionarie di vivere e attecchire. Per ricordarlo ho scelto brani di ragionamenti e analisi di tre personalità come Palmiro Togliatti, Enrico Berlinguer e Pietro Ingrao che hanno affrontato aspetti specifici dell’elaborazione gramsciana.

Sardo fu Antonio Gramsci – disse Palmiro Togliatti in uno storico comizio a Carbonia nel decennale della morte -; sardo di nascita; sardo perché amò la sua terra d’immenso amore, l’amò così come essa è, con la sua bellezza semplice, con le sue asperità, con i suoi contrasti, con le sue sofferenze, con le sofferenze del popolo sardo che egli conobbe, comprese e condivise. Immagini di questa terra accompagnano il nostro compagno indimenticabile fino agli ultimi giorni della sua esistenza; teneri ricordi d’infanzia, memorie di scuola che ritroviamo oggi nelle sue lettere, espressi con le parole semplici, nobilissime, lontane da ogni infingimento letterario, da ogni artificio di declamazione oratoria”.

Ma sardo fu Gramsci perché dalla conoscenza delle condizioni e dei dolori della sua terra, dalla conoscenza delle sofferenze del popolo che l’abita venne a lui l’impulso a porre in modo nuovo, diverso, i problemi del rinnovamento non soltanto della vita della Sardegna, ma della vita e della struttura di tutta la società italiana. Sardo fu questo impulso; di qui partì. Questo non dimenticheremo mai. Questo non potremmo mai dimenticare”.

…Ricordo un’immagine semplice, popolare come quelle di cui sempre si serviva il nostro grande compagno per rendere accessibili a tutti le cose più difficili, una immagine nella quale cercava di tradurre in una visione concreta le condizioni dell’isola e le cause di queste condizioni. Dovete immaginarvi la Sardegna, egli diceva, come un campo fertile e ubertoso la cui fertilità è alimentata da una vena d’acqua sotterranea che parte da un monte lontano. Improvvisamente voi vedete che la fertilità del campo è scomparsa. Là dove vi erano messi ubertose vi è soltanto più erba bruciata dal sole. Voi cercate la causa di questa sciagura, ma non la troverete mai se non uscite dall’ambito del vostro campicello, se non spingete la vostra ricerca fino al monte da cui l’acqua veniva, se non arrivate a scoprire che lontano parecchi chilometri un malvagio o un egoista ha tagliato la vena dell’acqua che alimentava la fertilità ubertosa del vostro campo”.

Il problema che assillava Gramsci era appunto questo, chi ha tagliato la vena che in altri periodi del passato aveva reso fertile e felice la terra di Sardegna? Chi ha condannato in questo modo la Sardegna alla arretratezza e alla povertà? … L’originalità di Gramsci incomincia dal momento in cui egli, diventato socialista, continua ad essere sardo, ed i problemi del socialismo non stacca dai problemi della redenzione della propria isola; anzi trova nella dottrina e nel pensiero socialista la guida per scoprire la via che deve portare alla soluzione di questi problemi”.

… In questo modo egli arriva a determinare la funzione nuova della classe operaia come classe dirigente del rinnovamento di tutta la vita economica, politica e sociale d’Italia, e fonda nello spirito della più rigorosa dottrina marxista una politica completamente nuova per il socialismo italiano, di alleanza tra i gruppi sociali più progrediti e la grande massa delle popolazioni delle regioni più arretrate del paese. Attraverso questa alleanza si dà alla democrazia e al socialismo una forza nuova, irresistibile; si minano per sempre le basi della reazione e conservazione sociale; si aprono al paese le strade sicure della libertà e del progresso”.

… Per la prima volta nella storia del nostro Paese il socialismo diventa con lui non più soltanto un movimento di classi proletarie sfruttate in lotta per il miglioramento delle condizioni di esistenza e per la loro emancipazione sociale: diventa moto per il rinnovamento di tutta la società italiana, diventa movimento nazionale progressivo, liberatore…”.

Trent’anni dopo Enrico Berlinguer, in un discorso del 24 aprile 1977 affronta ancora la questione delle alleanze e ne fa il centro del suo discorso. “Non si può spiegare la fama e la popolarità di Antonio Gramsci se non ci fosse stato e non ci fosse oggi un grande partito comunista; ma non ci sarebbe oggi questo nostro partito se non ci fosse stato Antonio Gramsci: il Gramsci sardo, il Gramsci di Torino, il Gramsci del congresso comunista di Lione, il Gramsci dei Quaderni dal carcere”.

… Ma come riesce quel Gramsci che si considerava e si definiva un “triplice e quadruplice provinciale” a sprovincializzarsi? Egli compie questo passo a Torino, con la severità dei suoi studi universitari e con il contatto con la classe operaia organizzata di quella città. Gramsci incontra a Torino la classe sociale che storicamente è chiamata a un ruolo centrale nella vita italiana e a Torino egli comprende che proprio la classe operaia è classe nazionale e universale per eccellenza”

Ma proprio a Torino Gramsci coglie anche tutti i limiti e tutte le insufficienze del movimento socialista italiano, ed è proprio lui che sarà chiamato a dare il massimo contributo al superamento di quel “provincialismo” di altro tipo che si esprimeva nelle angustie economicistiche, corporative, nordiste, che caratterizzavano allora il movimento sindacale e politico dei lavoratori che gli impedivano di acquisire la propria autonomia ideale e politica, e di esercitare la sua funzione nazionale organizzando intorno a se un sistema di alleanze. Questo divenne il tema cardine della ricerca teorica e el lavoro politico di Antonio Gramsci”.

… da Gramsci poi abbiamo appreso a non fare del marxismo (e quindi dello stesso pensiero gramsciano) un corpo di regole e di formule fissate una volta per sempre. Proprio da Gramsci abbiamo appreso a ispirarci al marxismo in modo critico e creativo, e cioè a svilupparlo per farlo divenire strumento sempre adeguato al processo storico, utile per interpretare e trasformare la realtà attraverso un’azione politica sostenuta dal movimento delle masse e capace di spostare forze adeguate per cambiare i rapporti di potere”.

Da Gramsci abbiamo ricevuto l’insegnamento che la rivoluzione è un processo incessante che avanza con l’affermazione continua dell’iniziativa coordinata e unificante della classe operaia e di tutte le forze del progresso. Per questo egli diceva – il movimento operaio non può concepire l’avvento del socialismo come “la caduta dell’albero di una pera matura”; con ciò criticando e superando l’opportunismo e l’attendismo dei riformisti”.

Ad Ales, nello stesso anno, Pietro Ingrao, spiegava come Gramsci tenga conto “nella sua analisi del fallimento delle rivolte meridionali e l’intera sua ricerca tende a fare emergere la varietà delle azioni, delle forme e degli strumenti attraverso i quali la classe dominante fa penetrare negli altri ceti idee e interessi che determinano scelte nella fabbrica e nella società. Per cambiare la società non basta dunque la lotta d’ un giorno. Le forze popolari devono prepararsi ad una battaglia lunga, ad una vera e propria “guerra di posizione”. Deve scaturire dalle masse popolari una vera e propria rivoluzione culturale che sia alla base di un altro stato”.

(brani tratti dal numero speciale di Rinascita Sarda pubblicato nel centenario della nascita di Gramsci, gennaio 1991)

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