Altro che elezioni inutili: Berlusconi e il Pd cercano la rivincita per governare insieme

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di Vindice Lecis

Se vi dicono, come stanno tentando in questi giorni, che il voto del 4 marzo sarà inutile, spiegategli quanto invece sia importante per la democrazia italiana. Cerco di spiegarmi in poche righe.

L’ipotesi più accreditata sembra essere quella di un governo di larghe intese. Lo hanno auspicato esponenti di primo piano del Pd come Minniti, lo ha ammesso forse involontariamente – pur giustificandolo col paravento del governo di scopo per la legge elettorale, caso unico nel mondo – anche il  capo politico di Liberi e Uguali, Pietro Grasso. Berlusconi e Salvini lo negano decisamente, ma entrambi temono di dover tornare al voto. Il governo delle larghe intese – niente a che fare con la drammatica grandezza della solidarietà nazionale durante il terrorismo della seconda metà degli Anni Settanta  – somiglierebbe, come Junker ha spiegato, agli esecutivi italiani che lo hanno preceduto, cioè eterodiretto dal governo mondiale dell’economia e della sua succursale burocratico-finanziaria europea.

Perché dunque è utile, utilissimo, capire la posta in gioco e votare?

Il governo delle larghe intese per rifare la legge elettorale (imposta pochi mesi fa dal Pd) sarebbe un grande e pericoloso imbroglio che svuoterebbe ulteriormente la democrazia italiana. Il premier-conte Gentiloni, il pacato prosecutore del renzismo con altri mezzi, per far passare l’indecente Rosatellum ha posto nove volte il voto di fiducia. Una lesione della democrazia con la furba convinzione di voler costruire una trappola ad uso del Pd per schiantare ogni forma di vita a sinistra e  il M5S. Collegi disegnati ad hoc, alleanze farlocche, soglie di sbarramento particolari, liste bloccate, divieto di voto disgiunto, niente preferenze che hanno favorito invece l’aggregazione del centro destra. Geniali.

Il voto utile non esiste, non è mai esistito. Men che meno in queste elezioni per due terzi legate al sistema proporzionale. Ecco perché è necessario, non solo andare a votare,  ma anche garantire il voto alla formazione più vicina alle proprie idee e convinzioni. Liberamente. Queste elezioni non sono, nonostante lo squallore della legge elettorale che ci espropria delle nostre prerogative di scelta, una passeggiata rituale ma possono da una parte contribuire al declino della malconcia democrazia italiana; dall’altra contribuire invece a fare breccia con nuove proposte più avanzate rispetto a quelle che siamo costretti a sentire ogni giorno da Bruxelles e Strasburgo.

I pericoli sono numerosi. E anzitutto arrivano da destra. La Lega Nord di Salvini è un torvo movimento, irrobustito non solo da razzismo e xenofobia e dalla commistione con la cancrena nazifascista, ma anche dagli eserciti di disperati che la crisi ha sbattuto ai margini della vita. La Lega sarà anche una comunità del rancore e una metastasi in parte estranea al sistema democratico. Ma certamente nel suo insediamento sociale ci sono legioni di nuovi poveri.

Nella destra il patetico ma non meno pericoloso ritorno di Berlusconi, rappresenta un aspetto patologico della democrazia italiana. L’informazione appare annichilita – se non complice – nell’incapacità di contrastare eticamente e in nome del civismo costituzionale l’ennesimo arrembaggio di un interdetto al voto, di un pregiudicato, di un uomo contiguo alla mafia che ha fatto del conflitto di interessi la sua cifra politica. Berlusconi sguazza in quella zona grigia della società italiana, quella che attende risposte dall’uomo forte e non ha la minima fiducia nella democrazia rappresentativa.

Ma il pericolo non viene solo dalla destra.  Abbiamo sperimentato quello potente e incombente che proviene dal Pd. Un partito che non è può essere più , se mai lo è stato, l’interlocutore dei cittadini che si riconoscono nella Costituzione repubblicana. A questo partito, trasformatosi geneticamente in pochi anni da una malattia devastante che lo ha svuotato dall’interno, non si può dare fiducia. Perché al Pd e al suo capo Renzi, l’Europa ha affidato il compito di completare il lavoro sporco ben avviato da Berlusconi e proseguito da Monti e Letta: l’incarico cioè di distruggere il lavoro e precarizzarlo, trasformandolo in una landa priva di diritti. Il Jobs act non ha risolto infatti nessun problema ma è stata la cambiale pagata per poter restare al governo per mille giorni e attuare ciò che Confindustria, Marchionne, Bce e Ue chiedevano.

La trasformazione totale del Pd – da forza flebilmente socialdemocratica con Bersani a organismo di pieno supporto alle politiche liberiste europee e atlantiche – si è evidenziata nelle politiche che hanno messo al centro l’impresa e non il lavoro dignitoso delle persone. Addetti ricattati popolano aziende e settori produttivi. Cittadini sfruttati come schiavi si aggirano dentro un mercato del lavoro che considera occupato chi è assunto   un’ora alla settimana. I giovani non hanno speranza di poter costruire in tempi giusti il proprio futuro. Gli ammortizzatori sociali di fatto quasi non esistono più o sono di breve durata. Le imprese che hanno goduto delle famigerate decontribuzioni in realtà non hanno investito  e hanno invece cacciato beffardamente i neo assunti delle tutele crescenti e senza l’articolo 18. E intanto santifichiamo Calenda che solo ora si accorge che le aziende senza bussola se non il mercato privo di regole, delocalizzano.

L’Italia col Pd è andata alla deriva ed è scivolata sempre più a destra. Il Pd ha devastato quello che la Costituzione garantisce: sanità e istruzione. Come si fa a non vedere i risultati negativi della Buona scuola? O della galoppante privatizzazione o mala gestione della sanità per tutti appesantita dai ticket?

E’ evidente che il M5S ha avuto buon gioco a presentarsi come alternativa al sistema di potere del Pd. Perché i dem, novelli democristiani bulimici, hanno occupato tutti gli spazi (il caso sardo è decisamente peggiore della Firenze renzizzata, una sorta di regime onnipresente dalla giunta regionale agli enti di sottogoverno, dal credito alla ricerca) . E quelli che non sono riusciti a invadere, li hanno ceduti al socio Berlusconi. I 5 Stelle sono certamente un fenomeno da non sottovalutare, aiutati nella crescita non solo dalle politiche liberiste del Pd ma anche dall’ostracismo e dalla scomunica che i ben pensanti liberal hanno loro rivolto.

Che cosa importa, e a chi soprattutto, se i 5 stelle sono giudicati populisti (che cosa vuol dire, populisti?) quando hanno una ricetta semplice come quella di abolire le leggi vergogna di Renzi? Rappresentano dunque un polo di attrazione potente che non può essere derubricato nella categoria del non sono esperti. Il cittadino medio, anche quello di sinistra, preferisce gente così – con le loro contraddizioni ed errori – agli esperti del calibro di Gentiloni, Renzi, Madia, Boschi, Franceschini, Berlusconi e Brunetta. I 5 stelle sono percepiti come una forza anti-establishment per questo diventeranno probabilmente il primo partito. Passano per questo in secondo piano le zone d’ombra piuttosto dense  e qualche  personaggio poco raccomandabili, frutto dell’assalto alla diligenza delle candidature che non possono essere gestite a colpi di click da una piattaforma digitale.  Che dire delle giravolte sull’euro e sull’Europa?

Appunto, l’Europa. Mentre in Italia volge al termine una campagna elettorale di questo tipo, l’Europa lavora per noi. L’austerità sarà per sempre se il fiscal compact (patto di bilancio europeo entrato in vigore nel 2012 e che strangola le economie nazionali dentro norme capestro su deficit, bilancio e debito) da parallelo ai trattati, come è oggi, dovesse essere assunto direttamente da questi. Un atto di una gravità ancora non pienamente avvertita. E per nessuno ci sarebbe scampo e non il colore o il peso delle catene.

Che fa su questo versante la sinistra nelle sue due articolazioni? Il Fatto quotidiano ha coniato per Liberi e Uguali la definizione di Pd2. Grasso da risorsa sembra diventare un problema o un freno. Sulla riforma Fornero, ad esempio, ha detto: “Abolirla è sbagliato, bisogna rimetterla in ordine e riformarla in relazione alle categorie, al tipo di lavoro e alle esigenze delle persone”. Poi ha aperto ingenuamente a Gentiloni e al governo di scopo sulla legge elettorale. Fratoianni – che non è mai stato nel Pd – ha dovuto precisare le parole del suo capo politico, costretto poi a spiegarsi.

In queste convulse settimane è indubbiamente  cresciuta la formazione di Potere al popolo, un organismo unitario di forze politiche (Pci, Prc, Rete dei comunisti), sindacati di base, movimenti come Eurostop e centri sociali. Il suo profilo più netto e radicale gli ha consentito di poter parlare senza remore di abolizione della Fornero e del jobs act, di ripristino dell’articolo 18, di mettere da parte la cosiddetta buona scuola e di conferire reddito alle fasce di estrema povertà. A Potere al popolo e a chi lo sostiene non interessa nessun incicio col Pd, ma creare le condizioni di un ingresso in Parlameno della sinistra anche in vista di prossime scadenze locali ed di quella europea del 2019. Difficile raggungere questo obiettivo anche  se non impossibile per questa formazione unitaria  – non priva certamente di contraddizioni – ma che ha il pregio di proporre chiaramente un’altra idea dell’Italia e dell’Europa. In tempi di conformismo dilagante e di politicismo d’accatto, non è poco.

 

ps: Della serie il peggio di questa campagna elettorale (Casa Pound è fuori quota: come si possono commentare questi fascisti che propongono di occupare militarmente l’altra sponda, cioè la Libia?) ho scelto Emma Bonino. La sua storia, abbondantemente controversa (dal 1994 a oggi ha corso come un pendolino tra Berlusconi, Veltroni, Prodi per finire alla stazione Leopolda di Renzi) la inserisce pienamente nell’odiosa categoria dei liberisti feroci. Diciott’anni fa ad esempio raccolse le firme per 20 referendum, di cui 11 sul lavoro, dove tra l’altro si chiedeva l’abrogazione dell’art. 18. Oggi si presenta come la custode del pareggio di bilancio e della riforma Fornero. Invotabile (naturalmente è un cespuglio del Pd).

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