Le lacrime di Veltroni e il surreale dibattito nel Pd anticamera dell’estinzione

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di Vindice Lecis

E adesso Veltroni piagnucola. Il suo iritante gne-gne ha davvero qualcosa di surreale. La sua creatura – e anche di Prodi e di Parisi, di Rutelli e di Fassino e di D’Alema – si conferma una mescolanza agitata, un’indigesta melassa, un comitato elettorale quando non d’affari. Ora è tardi per mettersi a versare lacrime perché la sinistra “ha raggiunto il livello più basso”. Perché lo dovevi sapere caro ex sindaco di Roma mai stato comunista (cit) che Marchionne e i lavoratori non possono convivere nello stesso partito, che non si può stare con i palazzinari e parlare di urbanistica nuova, che è impossibile immaginare sanità e istruzione pubblici e invece tagliarli e ridimensionarli. Perché non siete più sinistra, perchè avete smesso da un bel pezzo di esserlo, perché non lo siete più da tanti anni.

E’ davvero surreale il dibattito interno al Pd – con interviste sui giornali, perché confronti pubblici non ne esistono e quelli interni sono desolatamente esangui – alla ricerca delle cause del tracollo elettorale e della disfatta politica. I dirigenti (e ciò che resta degli iscritti) non vogliono vedere i motivi reali della sconfitta. Non l’ammettono se non come elemento rituale del loro chiacchiericcio e, dunque, la rimuovono. Ho davanti le innumerevoli interviste rilasciate dai Renzi e dai Fassino, dai Martina e dai Giachetti, dagli Zingaretti e dai Franceschini (di Orfini non vale la pena parlare) ma, invano, ho trovato un barlume di autocritica. Renzi se la prende ancora col risultato del referendum del dicembre 2016 che lo ha mandato a casa. Orlando, il finto contraltare del deputato di Lastra a Signa, lamenta al massimo la necessità di “ascoltare”. Ma ascoltare che cosa? Non avete ancora sentito bene che cosa vi hanno detto gli elettori? Che partito politico è quello che non analizza criticamente il lavoro fatto dai governi recenti che hanno prodotto scelte politiche respinte dal popolo?

Invece tutti, da Renzi a Martina, rivendicano con orgoglio suicida la giustezza delle scelte fatte. Il combinato disposto jobs act-buona scuola viene assunto anzi come paradigma di buon governo illuminato e di modernità competitiva. E non, invece, come il fulcro centrale del disastro. Questo partito segue Renzi sulla strada del declino che, a questo punto, auspichiamo. Così avrebbe terine in Italia la terribile anomalia di un partito che è parte del Pse – complice delle scelte ferocemente liberiste imposte dalla trojka anche per l’Italia a partire da previdenza e lavoro – e che rappresenta una misficazione per l’elettore.

Renzi al Corsera del 12 marzo, fresco di finte dimissioni, rivendicava tutte le sciagurate scelte degli ultimi anni. Cosa si può replicare a frase del tipo: “Abbiamo fatto uscire l’Italia dalla crisi. Quando finirà la campagna di odio tanti riconosceranno i risultati”. E’ evidente che qusta forma di narcisismo esasperato tradotto in politica esula da ogni analisi seria. Ma è la realtà dove il livello nel dibattito del Pd è al minimo consentito in una comunità. Non si toccano temi, non si individuano strategie. Si schierano solo le sempre più esangui truppe. Si immagina un partito macroniano assai centrista e legato al peggio dell’Ue, oppure all’opposto si sogna una riedizione confusa di Ulivi o altro, rinvangando un centro sinistra che è invece morto e sepolto (e vive solo nella mente di Zingaretti e Bersani).

Il Pd immagina se stesso come un argine al populismo. Invece ciò che il modesto e rissoso confronto evita di affrontare è la sua stessa natura. In realtà il Pd dovrebbe sciogliersi. Ciò che resta di “sinistra” – penso a quei pochi iscritti convinti di essere eredi, spero in buona fede, di grandi tradizioni – non può pensare di restare prigioniero delle logiche post dc di Renzi o Zanda, Guerini o Franceschini, Rosato e Boschi. Non capisco come possano restare in un partito che, da tempo, ha reso l’anima, ha abdicato a principi e valori scegliendo quelli del turbo capitalismo feroce, e ha smesso di stare con chi vive la crisi per sposare invece il pensiero unico dominante.

Poi c’è un caso nel caso. E’ quello della Sardegna dove si voterà tra un anno. Mi chiedo a che cosa porti l’attivismo sciancato di Renato Soru. L’europarlamentare tesse la sua tela sghemba, confidando che i sardi siano smemorati e si facciano incantare dal suo incomprensibile borbottio (sì alla riforma sanitaria, nì alla legge urbanistica). Né lui e tantomeno altri (Cucca, Lai, Ganau) mettono al centro del declino inarrestabile e micidiale del Pd sardo (da macchina da guerra di voti e clientele a carro senza ruote) la sciagurata esperienza della giunta Pigliaru. Se lo fanno è per balbettare esili distinguo. Lavoro, trasporti, urbanistica, sanità, zone interne, dissesto idrogeologico, infrastrutture. La Sardegna è un campo devastato di promesse non mantenute, di scelte sbagliate dentro la peggior stagione dell’autonomia.

Chi dà credito ancora al Pd carasau – che cambi nome non ha nessuna importanza – o pensa di portare sostegno a quanti voglono rianimarlo, magari in nome e per conto della insopportabile vulgata finto autonomista farebbe bene a dirlo subito. Gramsci e Lussu infatti, non c’entrano nulla.

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