In democrazia comandano i mercati? Diteci se votare serve ancora

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di Vindice Lecis

I mercati. Gli operatori economici e finanziari. Alle loro esigenze e ai loro interessi – non coincidenti mai con quelli nazionali – è stata sacrificata la nascita di un governo. Nello sconcertante intervento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, queste parole sono state ripetute e brandite come clave. Ne rapprentano l’architrave e l’ispirazione ideale e culturale. Come se si trattasse di un’esigenza vitale, di una necessità assoluta, di un caposaldo della democrazia repubblicana. I mercati, gli operatori finanziari, gli investorori. Definizioni salvifiche per descrivere i veri padroni, dimostrando di quale armamentario sia ingombro il retrobottega delle élite dirigenti nazionali ed europee, confermando il loro autentico convincimento su che cosa debba essere l’Europa, la loro Europa liberista e monetarista. Questa coincidenza tra mercato e democrazia è stato il filo conduttore della tremebonda e sconcertante gestione del dopo voto da parte di Mattarella. Che ha lasciato di sasso anche quanti – chi scrive ad esempio – sono lontani anni luce dalle due forze che hanno primeggiato alle elezioni. Toccate tutto ma non la roba.

Dalla discutibile gestione del voto – segnata dalle furbe giravolte del fornaio Di Maio e dalle astute doppiezze di Salvini che forse pensava già al voto per lucrare consensi e inghiottire Forza Italia – è emerso un fatto, drammatico: chi ha vinto le elezioni e si chiama M5S non può governare. Perché entità estranee alla libera espressione democratica del voto così hanno deciso. Pur senza fare paragoni irriverenti, lo stesso accadde per il Partito comunista italiano, fermato dalla conventio ad excludendum decisa dagli Usa e Gran Bretagna e dai circoli militari e finanziari a loro legati. Nonostante le rassicurazioni dei grillini, il loro ruolo è visto con preoccupazione dalla tecnocrazia europea e dalle varie confindustrie (nonostante la giravolta sul jobs act). Le rabberciate e parassitarie classi dirigenti, preferiscono una finta stabilità, che significa accettazione della leadership franco tedesca sul rigore.

Chi tocca l’euro muore. Chi scalfisce l’idea di un’Europa che non sia solo monetaria deve essere marginalizzato. E si prefigurano scenari apocalittici. Del tipo che “bisogna fare attenzione anche al pericolo di forti aumenti degli interessi dei mutui e per i finanzimenti per le aziende”. Che cosa significa? E la paura per il debito pubblico, cresciuto con Renzi e Gentiloni? Quello andava bene, invece perché non era populista?

La vera sfida irresponsabile non è stata lanciata dai due partiti – sgangherati e contraddittori – legittimati però dal voto. Ma anzitutto dalle istituzioni europee, dai governi “amici” e dai giornali liberal che hanno avviato una campagna di sfiducia preventiva. Ma anche dal Colle più alto della Repubblica, dal garante che si è fatto giocatore. Non si può, proprio  non si può, paragonare Savona – lontanissimo dalle mie convinzioni – a Previti bloccato da un predecessore di Mattarella. Ci dicano dunque se votare serve ancora, se si può legittimamente aspirare a non restare in Europa come lo siamo adesso, proni e colonizzati.

Solo gli sciocchi non vedono quale frattura si sia allargata ieri tra paese reale e istituzioni. Aggravata ancor più dalla provocazione di affidare a Carlo Cottarelli mani di forbice l’incarico esplorativo, destinato al falimento se non per riportare Pd e Forza Italia al governo del Paese

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