Robespierre: la rivoluzione come virtù e il dispotismo della libertà

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di Vindice Lecis

La sera del 10 termidoro (28 luglio) 1794 Robespierre, Saint Just, Couthon e diciannove altri sostenitori furono ghigliottinati senza processo. Vittime della congiura ordita da alcuni uomini del Comitato di salute pubblica e del Comitato di sicurezza generale. Il 29 luglio furono uccisi altri 71 partigiani del dirigente rivoluzionario. “Tragica ironia – ha scritto Albert Mathiez uno dei più grandi storici della rivoluzione francese – Robespierre e la sua parte perivano proprio per aver voluto far servire il Terrore ad una nuova rivoluzione della proprietà. La Repubblica egualitaria, senza ricchi né poveri ch’essi sognavano d’instaurare con le leggi del ventoso, era colpita a morte con loro. Gli incoscienti sanculotti dovranno ben presto rimpiangere quel “fottuto calmiere”.

Due secoli e 24 anni sono trascorsi da quella morte. Ma, lungi dall’essere disperse, le idee della Rivoluzione francese sono vive e con loro – piaccia o no – il fascino definito ambiguo di Maximilien Robespierre. Che parla anche alla società contemporanea in trasformazione, alle nuove classi sottoposte a inediti sfruttamenti così simili ai vecchi.

“La sua concezione spiritualista della società e del mondo – ha scritto lo storico Albert Soboul – lo lasciò disarmato di fronte alle contraddizioni che si affermarono nella primavera del 1794. Benché avesse saputo fornire una giustificazione teorica del Governo rivoluzionario e del Terrore, tuttavia Robespierre fu incapace d’una precisa analisi della realtà economica e sociale del suo temnpo. Senza dubbio non poteva sottovalutare la bilancia delle forze sociali e trascurare il ruolo preponderante della borghesia nella lotta contro l’aristocrazia. Ma Robespierre, come Saint Just, rimase prigioniero delle sue contraddizioni; l’uno e l’altro erano troppo coscienti degli interessi della borghesia per guadagnarsi totalmente il favore dei sanculotti; ma troppo attenti ai bisogni di questi ultimi per trovar favore agli occhi della borghesia”.

Questo contrasto tra la borghesia montagnarda e la sanculotteria parigina fu uno dei punti di crisi della fase finale della spinta rivoluzionaria che la morte di Robespierre sancì. Restano condivisibili le parole di Mathiez sul fatto che “non si cancellano in pochi mesi venti secoli di monarchia e di schiavitù” e Robespierre con i suoi “che volevano prolungare la dittatura per impiantare nuove istituzioni civili ed abbattere il predomonio della ricchezza lo sentivano bene”.

Oggi che il dibattito storiografico appare più attento e meno legato alla giustificazione di scelte contingenti di corto respiro, la grandezza e l’importanza di Robespierre (e dei giacobini) sta uscendo dalla zona d’ombra nella quale era stato confinato dal consueto revisionismo liberale per assurgere a “paradigma di azione rivoluzionaria riferibile a tutto il corso della storia” (cit. L. Guerci) Ecco perché Robespierre è da considerarsi a pieno titolo uno dei padri della sinistra, e il giacobinismo una sorta di anticipazione del leninismo. Altro che nucleo di tendenze totalitarie propagandate sin dagli anni Cinquanta dello scorso secolo! L’eredita giacobina resta, anche se dimenticata o cloroformizzata. Come quella della Comune di Parigi.

Se vogliamo trovare una delle basi teoriche del decadimento della sinistra europea e, segnatamente, di quella italiana, basterà ricordare la furia iconoclasta impersonata da alcuni dei dirigenti del Pci che si apprestavano a chiudere i conti con quella grande storia: nel 1989 Achille Occhetto liquidava sprezzante il giacobinismo (sul numero 4 dell’Espresso) come “un disvalore perché aveva in sè le radici del totalitarismo”.

Il terrore di rimanere sepolti dalle macerie del Muro di Berlino, trasformò quel pensiero e quella rivoluzione – va da sè che il riferimento da abbattere era comunque il leninismo – in un’orrenda caricatura. Sembrò – e anche oggi appare – che l’unico riferimento  della sinistra smarrita e in crisi d’identità sin da allora, fossero soltanto i “sacri principi del 1789”.

“Ma il giacobinismo – scrisse Luciano Guerci sull’Unità del 14 luglio 2001 – non ci lascia in eredità solo le tragiche scene del Terrore. Ponendo il principio dell’eguaglianza accanto a quello della libertà, la costituzione del 1793 ci ricorda che non basta proclamare la parità dei diritti: perché la democrazia non sia solo un nome, occorre che ciascuno abbia i mezzi per far valere i propri diritti. Fu la tradizione giacobina, non certo la dichiarazione del 1789, a sancire il diritto di ogni individuo all’esistenza”.

Robespierre si era posto un compito certamente arduo, e sicuramente superiore alle forze sociali che rappresentava. La sua breve esperienza a capo del governo – un anno esatto, dal 27 luglio 1793 sino all’assassinio – quando entrò nel Comitato di salute pubblica, dimostra come gettasse nello slancio rivoluzionario quell’idea di derivazione rousseauiana della virtù base della felicità e dell’intuizione della soggezione dell’interesse privato a quello pubblico.

Sul fronte esterno ebbe come nemici mortali i monarchici europei, dai re sul trono ai nostalgici esiliati dell’antico regime. Ma avversari implacabili, da lui ben ripagati, sul fronte interno furono gli estremisti di Hebert e gli indulgenti alla Danton. Grazie al Terrore fu sconfitta la Vandea e Tolone riconquistata agli inglesi. Salvò la Rivoluzione anche se “gli ingranaggi del Terrore finirono per isolarlo politicamente provocando la caduta in quel drammatico giorno del 27 luglio 1794” (cit. Lucio Villari)

Quello stesso giorno pronunciò l’ultimo grande discorso, sorta di eredità e sfida allo stesso tempo: “Io sono nato per combattere il delitto, non per governarlo. Non è ancora giunto il tempo in cui gli uomini onesti possano servire la patria impunemente; i difensori della libertà saranno sempre proscritti finché l’orda dei furfanti continuerà a dominare”.

Ma il discorso nel quale espone la concezione delle virtù repubblicane e i compiti del governo democratico e popolare lo aveva tenuto pochi mesi prima di cadere vittima del colpo di stato. Nella seduta del 17 piovoso 1794 (5 febbraio), Robespierre tratteggiava i principi di morale politica. Vale la pena citare quei passi che sono di straordinaria rottura e appaiono “radicali” anche oggi.

“Noi vogliamo sostituire, nel nostro paese, la morale all’egoismo, l’onestà all’onore, i principi alle usanze, i doveri alle convenienze, il dominio della ragione alla tirannia della moda, il disprezzo per il vizio al disprezzo per la sfortuna, la fierezza all’insolenza, la grandezza d’animo alla vanità, l’amore della gloria all’amore per il denaro, le persone buone alle buone compagnie, il merito all’intrigo, l’ingegno al bel esprit, la verità all’esteriorità, il fascino della felicità al tedio del piacere voluttuoso… e un popolo magnanimo, potente, felice a un popolo “amabile”, frivolo e miserabile; cioè tutte le virtù e tutti i miracoli della Repubblica a tutti i vizi e a tutte le ridicolaggini della monarchia”.

Aggiungeva che “l’anima della Repubblica è la virtù, l’uguaglianza” e che governo democratico e Repubblica sono sinonimi. Un sistema che va difeso “non tanto dagli eccessi del vigore, quanto dagli eccessi di debolezza”. Il che non significava “giustificare alcun eccesso”. In quei giorni del 1794 bisognava “soffocare i nemici interni ed esterni della Repubblica, oppure perire con essa”. Se dunque “la virtù del governo popolare in tempo di pace e la virtù, la forza del governo popolare in tempo di rivoluzione è ad un tempo la virtù e il terrore. La virtù senza la quale il terrore è cosa funesta; il terrore senza il quale la virtù e impotente”.

Per Robespierre il terrore “non è altro che la giustizia pronta, severa, inflessibile. Esso è dunque un’emanazione della virtù”. Combattere i nemici della libertà è il compito primo. “Il governo della rivoluzione è il dispotismo della libertà contro la tirannia”.

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