Il partito della nazione, il plebiscito e l’idea reazionaria di un uomo solo al comando

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di Vindice Lecis

Partito di Renzi o partito neo democristiano? Scorrendo l’elenco dei nomi che compongono i gruppi dirigenti nazionali e territoriali, osservandone le mosse e  le scelte politiche e di governo, è chiaro come queste due tendenze sembrano sommarsi e  fondersi.  Dal magma di questo Pd fatto di brani di apparati, di potentati locali fortemente infiltrati da presenze di destra, di confusi e ambiziosi “nativi”, di cedimenti alle ideologie liberiste e  conservatrici, è emerso un partito che al confronto quello a “vocazione maggioritaria” di Veltroni appare un progetto di sinistra, persino più affascinante. Non si tratta di questioni puramente nominalistiche ma di impostazione strategica. Il Partito della Nazione come viene teorizzato prende le mosse infatti dalla liquidazione del partito di massa sostituito da un organismo “leggero”, “senza tessere”, affidato a primarie aperte ad elettori ed avversari dove l’iscritto non conta e i gruppi dirigenti fanno combaciare le proprie scelte con le comodità demagogiche del momento (si badi bene, non con le necessità) figlio di un opportunismo senza ideali. Una strada aperta sia dallo sciagurato referendum di Segni che ha cancellato il sistema elettorale proporzionale spianando la strada a un maggioritario notabilare che dalla fine dei partiti decretata da muri crollati e corruzione imperante. Un’uscita “da destra” alla crisi della democrazia da cui nacque il berlusconismo.

Questa formazione politica, il Pd, per nulla erede di tradizioni della sinistra italiana è dunque un feroce e determinato gruppo di combattimento molto centralizzato che si ispira a politiche concentrate sul primato dell’impresa e del diritto del mercato come supremazia sui “dipendenti” e sul disprezzo delle regole. Già con Veltroni il conflitto capitale-lavoro (che esiste perché è nella logica stessa delle cose) era stato eliminata, sostituito da una vaga e confusa idea interclassista spruzzata da Kennedy, Obama e Jovanotti, un contenitore dove confluivano interessi diversi ma dove il timone di comando era sempre delle classi al potere. Oligarchie, in pratica, tanto in auge nel dibattito odierno. Il passo successivo, smantellato il partito e la sua funzione (di rappresentanza degli interessi di una classe o di più classi vicine per necessità vitali) si è transitati all’idea di Partito della Nazione, un concentrato di egemonia moderata e conservatrice che tutto annichilisce e irregimenta. E che guarda solo alle imprese, ai poteri finanziari e da loro attinge la legittimazione. Dove il suo orizzonte propagandistico è l’ossessiva “semplificazione” la “velocità” con la democrazia vista come impaccio.

I risultati sono: l’Articolo 18 cancellato. Buona Scuola di impianto confindustriale. Attacco alla divisione e all’equilibrio dei poteri. Tentativo in corso di devastazione costituzionale. Politica dei bonus, delle mance pre elettorali (il 41% alle europee è figlio di politiche di questo tipo). Lavoro feudalizzato e precarizzato. Argomentazioni populiste (dalla rottamazione alla finta proposta di “diminuire i politici” urlata dai Comitati del Sì del Pd). Sanità fatta a brani. Diminuzione degli spazi di democrazia rappresentativa. E, infine, personalizzazione della politica sulla scia del predecessore Berlusconi. Partito leaderista, dove il premier segretario tutto comanda, controlla, sceglie, ostracizza. E che occupa in modo dispotico i mezzi di informazione televisivi pubblici.

Partito neo democristiano? Se si intende una forza dove mille tendenze si ritrovavano su una piattaforma comune, allora non è esattamente ciò che accade ora tra i democratici. Renzi non è Bersani. Ciaone Carboni non è Cuperlo. Perché la Dc aveva all’interno linee contrastanti, unite dall’anticomunismo, ma la tendenza era quella degasperiana del “partito di centro che guarda a sinistra”. E non si intendeva solo una generica apertura prima al Psi e più tardi al Pci di Berlinguer. La Dc sentiva gli umori popolari e,  in nome dell’ideologia cristiano sociale, non avrebbe mai devastato lo Statuto dei lavoratori e i cristiano democraticie non avrebbero consentito di schiantare la Costituzione. La pericolosità della Dc era ben altro.

Dunque? Il Pd è sempre più Pdr, cioè Partito di Renzi. Aggregato  personale, quasi privatizzato, sovrapposto con la sola pratica di governo e, perciò, paralizzato e privo di strategie che non siano quelle del piccolo cabotaggio da sottogoverno. Partito che, però, sta  perdendo la sua scommessa. Si è scritto che per imporre la sua egemonia e convincere gli italiani su un’immagine edulcorata di paese in crescita, che riparte, che è invidiato dal mondo, doveva far ripartire l’economia. E quel misto di furbi e clientelari bonus, quel dispensare sgravi alle imprese per assumere, quel togliere diritti ai lavoratori non ha pagato. Il jobs act è sostanzialmente fallito. L’età pensionistica cresce. Le cifre fasulle che sovraintendono alla imminente manovra, quel patetico sgomitare sui decimali, quel grottesco bussare a “flessibilità” all’Europa non muovono un posto di lavoro, non creano sviluppo, non accendono fiducia.

Ma per diventare legittimamente Partito della nazione, Renzi doveva conquistare due importanti fortificazioni.  Svuotare il partito di Berlusconi e schiantare Grillo. La missione è fallita. Non solo. Renzi ha contemporaneamente perso pezzi del suo partito, dirigenti ed elettori. Il risultato delle amministrative è stato devastante e i sondaggi danno il Pd perdente a un ballottaggio con M5S. Una scissione silenziosa è in corso e guarda sia al partito di Grillo ma anche a sinistra dove, ancora, non si è però delineato un contenitore sufficientemente  credibile e politicamente aggregante. Il referendum può decretare la vittoria del partito della nazione in funzione di restaurazione, in pratica una chiusura dei conti iniziata nella lunga e opaca epoca berlusconiana. Oppure decretare il suo tramonto e con esso la fine delle tentazioni plebiscitarie che stanno distruggendo la nostra Repubblica.

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