Paragoni improponibili ma necessari: quel comitato centrale Pci del 1979 e lo spettacolo triste del Pd dopo la sconfitta

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di Vindice Lecis

Partiti di ieri di oggi. Sono impietosi e imbarazzanti i paragoni, ma è bene fare un ripassino della recente storia italiana per confrontare come si discuteva un tempo e come lo si fa oggi. Propongo solo un esempio, tanto per capirci. Alle elezioni politiche che si tennero il 3-4 giugno 1979, il Pci perse un milione e mezzo di voti (il 4%). Fu una severa flessione, se non una sconfitta elettorale vera e propria (allora c’era il proporzionale puro e un voto valeva un voto) per un partito che, solo tre anni prima, aveva conquistato sull’onda di un consenso crescente 12.615.650 voti pari al 34,37%.

Per discutere di quell’arretramento il Pci di Enrico Berlinguier convocò una riunione del suo comitato centrale. Una riunione per certi versi drammatica che sembrò quasi un congresso per la durata (quattro giorni) e per la discussione approfondita e severamente autocritica. In pratica i comunisti venivano da un triennio in cui si erano accollati la salvezza del paese (anzitutto situazione economica, lotta al terrorismo e difesa delle istituzioni) senza però partecipare direttamente al governo. Un logoramento che il Pci subì da parte della Dc e del Psi (con la regia degli Stati Uniti). Non fu un caso che Berlinguer e il partito avessero ritirato la fiducia al governo Andreotti nel gennaio di quell’anno, simbolicamente il giorno dei funerali dell’operaio comunista Guido Rossa trucidato dalle Br. Il Pci discusse, molto, affrontò il disagio della sua base sulla collaborazione con la Dc e mise le basi per quella che, un anno dopo e con un cambio netto di strategia, si sarebbe chiamata l’alternativa democratica.

Ciò che adesso interessa mettere in evidenza è che, anche nei momenti più difficili, quello era un partito che discuteva perché aveva fiducia nella sua funzione, guidato dall’interesse nazionale pur ribadendo la sua natura di lotta e di governo per trasformare il Paese.

Cambio scena. Nazareno, Roma. Si svolge una riunione della direzione del Pd, un partito neo centrista da tempo fuoriuscito dalla tradizione della sinistra italiana ed europea, frutto mostruoso di una fusione scombinata tra sbiadite tradizioni. Al tavolo della presidenza spiccano Matteo Renzi, segretario in carica, Matteo Orfini, presidente del consiglio nazionale del partito (il genio del disastro romano) e il vice segretario Lorenzo Guerini. Sembra di stare a una scampagnata. Clima disteso e ammiccante. Non si avverte alcuna drammatizzazione, non si sentono approfondimenti impietosi di fronte al tracollo referendario. Mancano, se si escludono alcuni interventi, increspature tipiche di un dibattito vero. La gran parte difende a testuggine il lavoro di Matteo. A guardarli ora, quei dirigenti sono l’immagine della sconfitta, della tristezza del declino. Appaiono confusi e smarriti. Colpo decisivo per chi aveva scommesso decisamente sulla giovinezza, la rapidità, il cinismo delle scelte. Al referendum – lo ricordo solo per dovere di cronaca – i favorevoli alla riforma costituzionale hanno ottenuto solo 13.431.842 voti (40,88%). Travolti dalla valanga del No che ha invece conquistato 19.420. 271 voti (59,12%).

Uno del Pd si potrebbe chiedere: ma perché abbiamo perso? Invano si cercherebbe la risposta nell’incolore relazione di Guerini, un solido ex dc di Lodi. Un discorsetto sbrigativo di 19 minuti era stato pronunciato anche da Renzi all’indomani del risultato del 4 dicembre Una sorta di comunicazione in cui non si cercavano le cause vera della sconfitta. Frase memorabile di quel pomeriggio, prima di recarsi da Mattarella per le dimissioni: “Noi non abbiamo paura di niente e di nessuno”. Tipico del personaggio da commedia all’italiana, seguito dal suo omo de panza Luca Lotti col suo “ripartiamo dal 40%”.

Una riunione sbiadita quella del 12 dicembre dove l’ormai ex premier, in maglioncino, ha aperto la campagna congressuale ricandidandosi per un secondo mandato ma senza affrontare i nodi del voto. Anzi, prefigurando rese dei conti e vendette tribali. Non si è messo infatti in ascolto verso i problemi, ottusamente confermando ogni passo compiuto nei mille travagliati giorni di governo – jobs act, buona scuola, patto del Nazareno, Sblocca Italia, salva banche e bonus a pioggia – individuando come causa dello smottamento non le scelte punite dagli italiani quanto la minoranza interna del suo partito.

Quanto è lontano quel luglio 1979, da questi sbrigativi e spocchiosi capi bastone immersi nel livido crepuscol del dicembre 2016. All’ex premier indistruttibile, non basterà raccontare che ora rimbocca le coperte ai figli e che non ha paracadute (sarebbe da consigliargli di farsi pagare in voucher) per far dimenticare che è stato l’uomo dei poteri forti, della finanza internazionale e della Confindustria. Uno l’onore delle armi, da parte di chi lo ha criticato e contestato, se lo deve anche conquistare. E proprio non ci siamo.

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