Un mese dopo il referendum: tra lo schianto delle tegole marce e una lettura riduttiva di quel limpido pronunciamento

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di Vindice Lecis

Le tegole marce si schiantarono in uno strepito di sciagura” scriveva Garcia Marquez nelle righe magiche di Cent’anni di solitudine. Una frase tra le più adatte da condividere per descrivere questo mese trascorso dal referendum. Un mese – era il 4 dicembre – nel quale alcune cose sono cambiate per non cambiare nulla.

Un mese è passato, segnato dalla scelta di garantire una preoccupata continuità al renzismo e alle sue politiche. In questo Mattarella è stato un vero maestro di scuola democristiana. Ormai da anni – quasi da sempre – non si assiste in Italia a una reale alternanza di fondo al governo del paese. Gli esecutivi si somigliano tutti nelle politiche che esprimono. L’avvento del maggioritario notabilare è stato   un’autentica sciagura per la democrazia rappresentativa. Il Parlamento è infarcito infatti di mezze calzette di nominati.

Prendiamo l’Articolo 18. Aveva cominciato il ministro Fornero del governo Monti, il salvatore dallo spread – mi auguro a questo proposito se non una Norimberga dell’informazione almeno una riflessione seguita dalle dimissioni di direttoroni per le centinaia o migliaia di pagine agiografiche dedicate a questo gelido e feroce sacerdote dell’austerità e della riduzione dei “confini” dell’intervento pubblico – ha proseguito e terminato il lavoro Matteo Renzi.

Scegliamo dal mazzo ancora le politiche per il lavoro: il livido crepuscolo avviato con Treu (Pd, ex Cisl), è proseguito sino a Poletti, (Pd, ex Legacoop) con il jobs act e i suoi decreti attuativi che hanno cristallizzato lo schiavismo compassionevole del voucher, biglietto per entrare nell’inferno del lavoro a tempo, per poco tempo; reso stabile il precariato e costruito un sistema totalmente privo di diritti. Oltre che intessuto una ragnatela di sgravi alle aziende per assunzioni-regolarizzazioni, anticamera di successivi licenziamenti.

Tutto appare in continuità, in coerenza con politiche dettate dai poteri sovranazionali, a loro volta animati dall’afflato degli organismi finanziari. Il giovanilismo dell’ex presidente del Consiglio, il linguaggio del corpo, la presunta velocizzazione delle decisioni erano tutte miserabili finzioni, bugie confezionate da solerti uffici e avvolte in carta di giornale con il sottofondo di telegiornali – pubblici e privati, non fa più differenza – avvezzi alla sudditanza.

Se scorriamo non solo le esangui cronache di questo mese – trascorso inerte tra le dichiarazioni di continuità di un Gentiloni con il suo predecessore e le presunte gaffes di un Poletti – ma anche i titoli di giornale di questo triennio renziano c’è da restare stupiti. Un moto di vergogna ci assale nello scorrere, giorno dopo giorno, le cronache di regime: la ripresa comincia, crescono i posti di lavoro, la buona scuola toglierà la precarietà, le aziende assumono, la corruzione è combattuta con energia così come l’evasione fiscale. Titoli uguali, ripetuti, tonitruanti. Affiancati al dileggio e all’aggressione verso chi si è opposto: un giorno Landini, un altro Grillo, poi la Cgil e persino l’eroico Smuraglia, presidente dell’Anpi.

Riguardiamo i protagonisti di quella stagione impunita (ancora in corso). Ci sembra trascorso un millennio eppure sono ancora nei posti di comando o nelle immediate retrovie, tanto mai cadono costoro: da Renzi a Lotti, da Boschi a Serracchiani, da Orfini a Franceschini, da Poletti a ciaone Carbone. Controfigure di un teatrino dove i veri attori protagonisti sono stati Marchionne e Draghi, Junker e Merkel.

Torniamo al mese trascorso da quel limpido, netto, inequivocabile No. Il popolo italiano ha detto che la Costituzione non si deve manomettere. Che i problemi dell’Italia non risiedono nella Carta fondamentale ma in governi ferocemente antipopolari e nelle loro scelte. Che la democrazia è un valore fondamentale e irrinunciabile tale da non poter essere regalata a organismi finanziari rapaci e inflessibili.

Da più parti si sono lette valutazioni limitative e anguste di quel No. Salvata la Carta, finito il lavoro. Analisi e auspicio miope, limitato, pericoloso. Perché gli italiani, sfibrati e atterriti da anni di austerità a senso unico e di premier eletti da parlamenti delegittimati, chiedono l’attuazione della Costituzione e politiche diverse, profondamente diverse. Il vero problema è che siamo il Paese con la minore conflittualità sociale in Europa, pensioni e jobs act sono passati senza grandi asprezze (riguardarsi invece cosa furono capaci di fare il Pci e la maggioranza della Cgil contro il taglio d’imperio da parte di Craxi della scala mobile nel 1984).

Sarebbe un delitto adagiarsi in questa lettura riduttiva e ritenere che il sistema politico italiano debba ruotare attorno a una stella cadente come il Pd. La stessa compromissoria illusione che muove la minoranza del partito – a cui si deve comunque rispetto – e che impedisce di guardare oltre, a un nuovo orizzonte.

Piaccia o no il problema resta ancora il renzismo. L’ex giovane ex premier trascorre i suoi giorni all’ombra di Gentiloni, meditando vendette tra spesa alla Coop e vacanze sugli scii con annesse fotografie insieme al nobilume decaduto. E così fanno in periferia i suoi proconsoli, senza avvertire che il profumo della disfatta va avanti da anni (sconfitta nelle regionali, sconfitta nelle amministrative, sconfitta al referendum, sconfitta in Europa).

Nel Pd pochi ancora si pongono il problema (e nemmeno lo fanno i Pisapia e i Zedda costretti frettolosamente a rivedere la loro strategia entrista) del perché in un partito gonfio di opportunismi e di correnti personali prive di qualsiasi idealità sia stato possibile “lo stridente contrasto tra la narrazione a tinte rosa del premier e la condizione materiale e il sentimento di larghi settori del Paese” (cit. il piddino Franco Monaco sul Fatto). Se hai una visione distorta le tue scelte sono sbagliate e devastanti. E vanno eliminate al più presto.

L’auspicio è che la politica torni a fare scelte in favore degli italiani, cancelli l’austerità dal proprio vocabolario, rimetta al centro la Costituzione, costruisca una stagione di lavoro e di diritti. Pensi al bene comune. La smetta di ritenere che i destini dell’Italia siano quelli di compiacere le logiche del profitto di pochi o che le politiche dei bonus possano risvegliare la domanda.

Serve una svolta profondissima, che non si vede purtroppo. Eppure è un’utopia realistica da perseguire. Riprendo allora l’amato Garcia Marquez citato in apertura di queste note: “I bambini avrebbero ricordato per il resto della loro vita l’augusta solennità con la quale il padre sedette a capotavola, tremante di febbre, consunto dalla veglia prolungata e dal fermento della sua immaginazione, e rivelò la sua scoperta: “La terra è rotonda come un’arancia”.

Ecco, basterebbe un po’ di coraggio e voglia di fare cose costituzionali: cambiare la legge Fornero, eliminare il jobs act, aumentare i salari anche di poco, garantire istruzione e sanità a tutti, far pagare le tasse a chi non le paga. Un sogno? Eppure si può, perché la terra è rotonda come un’arancia.

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