Perché la “sinistra” è scomparsa in Italia e hanno vinto i trasformisti

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di Vindice Lecis

La sinistra italiana è scomparsa dalle carte geografiche del vivere quotidiano. O, meglio, si è trasformata in qualcosa diversa da sé. Vittima della sindrome liberal americana e da scelte politiche succubi della necessità. Così da essere stritolata dal mortale abbraccio col liberismo e affascinata dalle politiche della finanza speculativa e della democrazia decidente. Ha abbandonato nel tempo il conflitto capitale-lavoro (considerato poco moderno, diamine), disancorato la questione dei diritti civili da quelli sociali e del lavoro annichilendo il concetto base dell’eguaglianza e della giustizia sociale, teorizzato il partito leggero come elemento a-democratico e leaderistico da far combaciare con la società liquida e atomizzata. Risultato? Una sconfitta dalle proporzioni epiche.

Una sinistra tremante e prigioniera del politicamente corretto, che non produce analisi della realtà e, anzi, la subisce accettandola. Non più capace per questo di rappresentare le classi subalterne per farle diventare forza generale e di governo. Il Pd rappresenta l’anello finale di quella trasformazione: da partito di massa a partito personale, da forza nata con residui e lontani cromosomi di sinistra a partito sostanzialmente centrista e regressivo, che si muove e comunica come una Democrazia Cristiana degenerata.

Una pseudo sinistra che svolge, dunque, politiche sostanzialmente di destra. Il jobs act è una di queste, feroce e profonda trasformazione delle leggi che regolano il lavoro tali da precarizzarlo in modo definitivo abbattendo regole e tutele. L’aziendalizzazione progressiva di scuola e università, negando il diritto allo studio è il secondo capitolo. Così come l’abbandono della difesa dell’ambiente e del suolo in cambio di alcune trivelle, di consumo del territorio e di deroghe sempre più massicce. Privatizzare è di destra. Le lenzuolate sono di destra. Bloccare i contratti è di destra. Non far applicare la legge sull’aborto è di destra. Tutto questo ha fatto la cosiddetta “sinistra”. Fino alla sciagura dell’Euro e dell’Europa della finanza. Con Prodi e Renzi hanno rivinto i padroni del vapore e Berlusconi ha fatto il resto, sguazzando nel decadimento etico che, purtroppo, piace a molti italiani.

Negli Usa si è aperto un dibattito innescato dal saggio di Mark Lilla, uno studioso progressista, intitolato The once and future liberal (ne ha parlato Stefano Pistolini sul Fatto Quotidiano del 6 settembre) che, con le dovute attenzioni e differenze, può essere anche letto come paradigma della situazione italiana.

In una società di minoranze, spiega Lilla, la sinistra perde (attenzione, si parla di quella Usa che è solo liberal , un insopportabile agglomerato di politically correct e radicalismo da convegno che va da Sanders a Hillary Clinton). I liberal Usa, afferma, sono vittime della politica del narcisismo e di un panico etico ossessionato dalle identità sessuali, razziali e di genere. Si occupano di volta in volta di donne, di afro, di gay, di indiani amplificando la divisione retorica delle differenze e, alla fine, risultando indigesti e invisi dalla maggoranza. Trump per questo ha vinto.

In Italia l’ossessione del dibattito sui migranti è emblematica. Una certa parte ha sposato esclusivamente la linea dell’accoglienza pura e semplice – certo doverosa ma non sufficiente – senza porsi invece il problema della gestione dei flussi, per regolarli. Sarebbe invece necessario capire a chi conviene tale esodo e quali rischi può determinare – nell’abbattimento dei fragili livelli dei diritti collettivi – un tale imponente esercito industriale di riserva disponibile a lavorare a bassissimo costo e in condizioni di schiavitù. I padroni si fregano già le mani. Parlarne è necessario. E anche il sindacato deve fare la sua parte, organizzando, includendo ma senza sconti al ribasso. Dal disordine non nasce nulla e non si costruisce solidarietà: il risultato di oggi è invece un rigurgito razzista e l’arretramento dell’Italia. Persino il papa si è reso conto che l’accoglienza pura e semplice da sola non basta.

Il predominio tra i liberal Usa (in Italia quella quella dei giornaloni che vogliono scalare i partiti e sceglierne i leader, da Veltroni a Prodi, da renzi a Pisapia) delle politiche identitarie, spiega Lilla, ha fatto sentire fuori posto chiunque non si identifichi in una di queste minoranze. E allora è giusto chiedersi se in cima al programma debba esserci il lavoro e l’abolizione del jobs act piuttosto che altre amenità sovrastrutturali da salotto buono.

La sinistra italiana del dopo Bolognina, privando la società della funzione del Pci, è scivolata progressivamente nel nulla. Sposando sempre più smaccatamente un sistema che, in nome della libertà, si basa sullo sfruttamento e sulla precarioetà dei rapporti di lavoro. Per uscire da questa intollerabile situazione di un Paese sotto ricatto, occorre svelare l’imbroglio secondo cui i processi economici sono naturali ed eterni e, quindi, immutabili. Ritornare dunque a fare politica dal basso rifiutando, come diceva Gramsci, “il giorno per giorno, con le sue faziosità e i suoi urti personalistici, invece della politica seria”. L’angustia meschina di questi tempi provoca infatti il trasformismo, il giovanilismo d’accatto, il mimetismo culturale e costruisce partiti come semplici aggregati elettorali.

Serve quella che Gramsci definiva politica-storia “capace di scavalcare interessi ristretti”, e un partito che compia “una riforma intellettuale e morale”. Cose grosse, si dirà. Io mi accontenterei di una Sinistra degna di questo nome.

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