I dieci anni del Pd: ma che cosa c’è da festeggiare?

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di Vindice Lecis

Arturo Parisi, teorico ulivista e vicino quanto basta a Romano Prodi, ha definito il decennale del Pd come “un giorno di lutto”. Si riferiva volutamente alla cronaca attuale, a quel nuovo sistema elettorale noto come  “fascistellum”  votato alla Camera con la fiducia e fitto di incongruenze tecniche e cavilli anti democratici. Ma, oltre la cronaca, proviamo a tracciare un bilancio del compleanno del Pd. Le scelte e gli errori conseguenti, ce lo consentono.

Mescolato non agitato. Il primo errore nasce dalla pretesa di trasformare un’alleanza (il vecchio centro sinistra e persino l’Ulivo) in un partito unico, figlio di confluenze al ribasso. Veltroni e soci immaginavano una sorta di felice meticciato, una pacifica convivenza di linee, orientamenti, convinzioni etiche, non solo differenti ma spesso opposte. Si sbagliavano lui, Bersani e Fassino. Il fallimento in questo campo è stato il più evidente. Quell’esperimento che doveva tendere a raggiungere un compromesso “alto” tra i diversi orientamenti, alla fine ha prodotto una mutazione genetica del partito con l’espulsione della tradizione della sinistra e, in particolare, di quella di estrazione comunista dal Pd. Troppo ingombrante.

Il pantheon con Marchionne. Il Pd di Veltroni aveva riteneva che fosse giusto cancellare il conflitto tra capitale e lavoro, troppo Ottocentesco. Aveva così vagheggiato un partito senza riferimenti sociali, ancorando dunque la “sinistra” a un universo magmatico e settorialistico di valori estranei alla tradizione socialista, espellendo dal suo vocabolario l’ipotesi della trasformazione. Con un efficace neologismo padron Soru l’ha chiamata comunità di destino , riedizione maccheronica del blairismo. Distratti dalla ricerca di immagini evocative – Kennedy, Madre Teresa, forse Jovanotti, chissà – il Pd si è incamminato dentro una stagione che ha portato a mettere in secondo piano le grandi questioni del lavoro e della sua trasformazione, creando le basi per la sua precarizzazione e schiavizzazione dei lavoratori. Teorizzando la fallace convinzione che si fose chiusa un’epoca (del conflitto, del comunismo-socialismo, delle riforme di struttura vere) l’idea veltroniana di partito leggero e aideologico, è stata riletta da Bersani in chiave di ditta, di ancoraggio parolaio alla fedeltà  di un passato da usare in modo strumentale, unito a un farsesco riformismo da lenzuolata. Ma erano maturi i tempi dell’arrivo di Renzi, un prodotto di laboratorio, e della sua idea di partito che guardasse alle imprese e non alle classi lavoratrici. Renzi ha dunque schierato il Pd in modo netto, dall’altra parte della barricata. Centralità del padronato ha significato diventare protagonisti della stagione più sciagurata del liberismo con la produzione del jobs act: libertà di licenziamento, politica di sgravi per gonfiare occupazione a tempo che ha costruito l’umiliante profilo di una generazione precaria. Per questo tra i metalmeccanici e la Fiat, il Pd di Renzi ha scelto Marchionne senza esitare.

I vecchi ragazzi Dc. Pian pianino molti quadri di provenienza Pci, con qualcuno nato anche nel Pds e poi nei Ds, hanno abbandonato il partito. Quelli rimasti a difendere il bidone, sono il simbolo di un’imbarazzante testimonianza. Fassino ne è l’esempio più chiaro- Mentre il ministro Orlando ha finto di contrapporsi nelle primarie interne e, ora, continua ad essere un diversamente renziano vagheggiando “nuovi inizi”. Di Orfini non fa conto discutere. Con Renzi appare così evidente la rappresentazione di un partito dove comandano i vecchi-giovani Dc: oltre all’ex premier ci sono Guerini, Boschi (che apprezza più Fanfani di Berlinguer), Lotti, Bonifazi, Franceschini, Rosato, Zanda. Giachetti e lo stesso Gentiloni sono invece un altro prodotto della scuderia di Rutelli. Ma sempre transitati nella Margherita, sorta di camera di compensazione di un certo popolarismo.

Berlusconi, Verdini&Alfano. Caratteristica del Pd è quella di subire il fascino del presunto avversario. Il partito ha infatti  coabitato dal novembre 2011 sempre con i partiti di una destra pur variamente definita. A sostegno dei governi Monti, Letta, Renzi e oggi Gentiloni i voti del Pd si sono mescolati allegramente – una volta perché ce lo chiedeva l’Europa, un’altra perché era esigenza del partito della nazione – a quelli di Berlusconi, Lega, Alfano, Verdini.

Mutazione genetica. Il Pd non è un partito di sinistra, da tempo. E ora appare anche complicato definirlo di centro sinistra. Sono le scelte sul lavoro col jobs act a bollarlo come una dependance confindustriale. Sono forti anche le pulsioni autoritarie che lo hanno portato sulla strada dello stravolgimento costituzionale o di leggi elettorali truffa. Se aggiungiamo la controriforma della scuola, l’acquiescenza alle politiche di austerità e finanziarie dell’Europa dei banchieri e delle multinazionali, l’ignavia sulle questioni internazionali con un atlantismo da anni cinquanta si può pensare a un patetico blairismo fuori del tempo.

Il renzismo che declina. L’ambizione non è un difetto. Ma ammoniva Gramsci: “tutto sta nel vedere se l’ambizioso si eleva dopo aver fatto il deserto intorno a sé”. Renzi ha costruito il Pd come è affettivamente egli stesso: spregiudicato e ondivago, privo di remore morali, un tantinello bugiardo. Legato all’immagine e a una concezione di partito personale. Il suo Pd rappresenta infatti le classi dominanti, simbolo di una restaurazione di stampo liberistico. Ma ha perso per strada una larga parte di militanti e di elettori, in cerca di una “casa”. Le prove elettorali degli ultimi anni sono un rosario di sconfitte cocenti. Eppure Renzi comntinua ad essere immerso nel cesarismo e nell’attrazione verso un ruolo plebiscitario.

Quanti complici. Renzi non  ha fatto tutto da solo, pur applaudito dalle maggioranze bulgare del consiglio nazionale. E’ stato aiutato da volenterosi complici. Credo che la responabilità dell’informazione, ad esempio, sia stata grave nel descrivere una raltà che non esisteva. Una certa stampa liberal o padronal ha artatamente costruito il consenso attorno al pensiero unico e ai suoi governi, svenandosi nel sostegno prima di Monti e poi dello stesso Renzi, appoggiandoa la riforma costituzionale. Che dire ad esempio della Cisl – assai subalterna – e della Coldiretti che ha aiutato il Pd a raccogliere le firme per il referendum? Ma anche la Cgil ha le sue responsabilità: ha subito la riforma delle pensioni e, di fatto, il jobs act con annessa eliminazione dell’Articolo 18, oltre a non aver reagito allo schiaffo della cancellazione del referendum sui voucher. Stenta a costruire il conflitto, a passare all’offensiva, giocando sempre e continuamente in difesa. La residua cinghia di trasmissione col Pd – in alcuni territori vistosa – dovrebbe essere decisamente recisa.

Mi spiegate dunque, che cosa c’è da festeggiare?

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