LeU, Pap e Autodeterminatzione: siete cartelli elettorali (in crisi), non gli ennesimi inservibili “nuovi soggetti politici”

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di Vindice Lecis

Liberi e Uguali, Potere al Popolo e, in Sardegna, Autodeterminatzione. Sono le coalizioni che, dopo risultati negativi o assai deludenti nelle elezioni del 4 marzo, stanno deflagrando o sono attraversate da tensioni e divaricazioni profonde. Solo alcuni partiti nelle rispettive alleanze – Sinistra italiana per LeU e il Pci per Pap – hanno analizzato il risultato elettorale nei loro organismi dirigenti. Per gli altri, le valutazioni hanno oscillato tra il silenzio incredulo, la rabbia per il destino cinico e baro, la delusione verso il popolo cieco obnubilato dalla tv.

La pietra angolare del fallimento è stata l’ipocrisia. Il considerare cioè le tre aggregazioni-coalizioni come l’embrione dell’ennesimo nuovo soggetto politico. Nessuno dei partiti o gruppi ha avuto invece l’onestà di raccontare la verità: che si trattava di cartelli elettorali, di legittime alleanze come sono state numerose altre nel corso della storia. Il senso di smarrimento dopo il disastro può trovare spiegazione ammettendo che normali intese elettorali nascono e muoiono a causa delle diversità di obbiettivi strategici. E di smaccati personalismi.

Perché l’Ulivo è fallito? Perché cercava di unificare il molteplice, gemmazione di un finto bipolarismo all’americana che annullava decenni di storia repubblicana segnata dal sistema proporzionale e dalla presenza di partiti. Sì, proprio dei vituperati partiti. Perché allo stesso tempo il disegno del Pd si sta dissolvendo? Perché pretende di unificare destra e sinistra, di mescolare diversità inconciliabili, differenti visioni del mondo, Marchionne e Landini, operai e padroni.

Prendiamo Liberi e Uguali, reduce da un risultato elettorale che, pur portando in Parlamento una risicata pattuglia, deve fare i conti ora con le notevoli contraddizioni interne. Da una parte c’è Sinistra Italiana che non ha mai parlato di ritorno del centro sinistra, che non vagheggiava nuovi Ulivi e proponeva l’ abolizione delle leggi vergogna del renzismo. Ma che è stata costretta ad accettare per scelte verticistiche e per una debolezza assai profonda dei propri gruppi dirigenti, prima Pietro Grasso, inventato leader politico per acclamazione, quindi il traccheggiamento tattico dell’azionista di riferimento della coalizione: vale a dire Mdp di Speranza e Bersani (e D’Alema).

I cosiddetti bersaniani avevano e hanno una visione strategica diversa se non opposta alla formazione di Fratoianni. Vagheggiano un nuovo centro sinistra e una nuova intesa con un Pd derenzizzato, sottovalutando l’analisi sulla trasformazione profonda di quel partito e del suo elettorato. Riproponevano un centro sinistra delle origini, ma erano opachi e fangosi sui disastri attuati da Monti in poi, di cui erano stati anche protagonisti. Poteva un’alleanza del genere avere un futuro? Poteva un pezzo di usurato ceto politico, improvvisamente sbandierare gli eterni valori della sinistra?

La sconfitta durissima di Potere al Popolo nasce invece da altri fattori. Riconducibili ad un unico punto: una certa opacità e ambiguità di Rifondazione comunista, un non partito che ama a tal punto i movimenti da volersi sciogliere in essi. La formazione guidata da Acerbo ha tentato di egemonizzare il Brancaccio mentre, allo stesso tempo, corteggiava Sinistra Italiana e Civati. Quando poi è nata LeU, Rifondazione (improvvisamente esclusa) si è trovata col solo Brancaccio da scalare. Che Montanari e la Falcone – inopinatamente approdata in LeU nonostante venisse scambiata per Rosa Luxemburg – hanno però immediatamente chiuso, come un negozietto privato. Quindi Rc ha colto l’occasione che veniva data dai generosi esponenti di un centro sociale napoletano per sposare il progetto di Potere al Popolo.

Potere al Popolo è stato dunque un laboratorio generoso e infantile, ricco di passioni e umori, di scelte assolutamente giuste dove albergavano contraddizioni profonde. Che risultato poteva avere una coalizione che sembrava uscita da un copione puramente antagonista? Che a livello territoriale quasi schifava i partiti – celebrando la religione ipocrita delle scelte dal basso (ma quando mai!), che poi ai partiti era costretta ad appoggiarsi (per raccogliere le firme, attaccare i manifesti, volantinare). Che aveva proposto l’abolizione del 41 bis come una Emma Bonino qualsiasi? Una coalizione con tratti da antagonismo impolitico. Rifondazione ha lanciato subito dopo il voto la parola d’ordine di indietro non si torna, incapace di valutare i motivi della sconfitta. E il Pci invece, convocando il suo congresso, di fatto ha ribadito la priorità di rafforzare il gracile partito considerando Pap una sorta di interlocutore e non un nuovo soggetto politico. Rifiutando di sciogliersi e annegare nel movimento.

In Sardegna abbiamo avuto invece il caso di Autodeterminatzione. Un tavolo che ha riunito otto sigle che, durante tutta la campagna elettorale, hanno sotterrato l’ascia di guerra, dietro il simbolo di un simpatico e utile insetto. Abilmente, hanno evitato di parlare di indipendentismo, oscurando il rivoluzionarismo in luogo della mitterandiana – ma anche fatta propria da Gentiloni – forza tranquilla. Non una forte ipotesi di trasformazione, diciamo. Ma hanno ballato poche settimane con l’illusione di un risultato a due cifre o di ripetere lo sfortunato exploit delle liste della Murgia di qualche anno prima, sospinti da affollatissime assemblee popolari. Poco più del 2% è un risultato deludente, nonostante le valutazioni differenti. Il portavoce si è dimesso dopo il voto mentre, rapidamente, le otto formazioni che componevano l’alleanza si stanno muovendo e riposizionando. Il fronte indipendentista si conferma per quello che è sempre stato: un rodomonte rissoso ma anche ambiguo, dovendo fare i conti – o meglio finalmente riscoprendo – il testacoda tra destra e sinistra come portatori di interessi diversi. L’idea vagheggiata di blocco nazionale, che sembra una parola d’ordine monarchica degli anni cinquanta, appare come una deriva etnica e che non porterà da nessuna parte. Così come la stucchevole lamentela sui partiti italiani.

Anche perché in Sardegna lo sport che va per la maggiore oggi è la moltiplicazione degli indipendentismi. A destra come a sinistra si vagheggiano blocchi identitari, con venature socialiste, federaliste, di tipo corso o di rito catalano, aggregazioni nazionalitarie, insulariste. Di ambiguità, di trasformismo, di troppa tattica spesso però si muore. Specialmente quando dietro discorsi infiammati e rivoluzionari, si nascondono ben più modeste ambizioni. Forse per tutti, dalla sinistra di varia osservanza ai gruppi della galassia identitaria sarebbe il caso di riscoprire invece le radici dell’idea autonomistica. Con l’obiettivo di diventare una reale alternativa al Pd e alla destra. Ma lo si vuole davvero? Il resto è puro velleitarismo inconcludente.

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