Oltre l’accoglienza: che cosa fanno i 640mila migranti sbarcati in Italia? Il traffico di esseri umani e l’enfasi no-border che alimenta il razzismo

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di Vindice Lecis

Dal 2014 – dati del ministero degli Interni – sono sbarcati in Italia oltre seicentomila migranti (640.315). Un numero imponente. Nel dettaglio sono stati: 170.100 nel 2014; 153.842 nel 2015; 181.436 nel 2016; 119.369 nel 2017 e 15.568 al 15 giugno 2018. Le ricollocazioni verso altri paesi sono state ridicole: soltanto 12.719, di cui 5435 in Germania e 640 in Francia. I rimpatri con riammissioni nei paesi di provenienza all’ottobre 2017 risultavano 17.405. Arrivano in particolare tunisini – l’unico paese democratico del mondo arabo – vale a dire il 19% sul totale, seguiti da eritrei (14%), sudanesi (8%) e nigeriani (7%).

Questi seicentomila esseri umani sono oggi fantasmi che vagano nel nostro Paese senza un lavoro e un futuro. Moltissimi finiscono sfruttati da chi vuole abbassare le tutele e lucrare. Non basta dunque sventolare l’accoglienza, spesso paravento di comodo per ingrassare spregiudicati appaltatori: servono invece politiche rigorose, flussi concordati con accordi mediterranei, hotspot internazionali nei paesi di partenza, lotta senza quartiere ai trafficanti di esseri umani e alle mafie locali che li smistano e li proteggono. L’Europa, come sempre, non c’è.

C’è un racket dell’immigrazione clandestina e del traffico immondo di esseri umani che organizza imponenti partenze. E anche una rete di criminalità locale – in questo caso italiana ma non solo – che cura alcuni aspetti nei luoghi di arrivo. «Per riuscire al meglio nel proprio business i trafficanti hanno cambiato modalità d’azione – ha detto il capo della procura di Catania, Zuccaro -. Prima le navi madre viaggiavano fino al limite con le acque italiane. Poi, con l’aumento delle partenze e il miglioramento dei controlli, hanno scelto di accompagnare i migranti all’interno delle acque internazionali, indicando ai natanti su cui viaggiavano i migranti la rotta da seguire. Infine, per ottenere assoluta impunità, hanno optato per non entrare più nelle acque internazionali, spingendo i soccorritori ad arrivare al limite con le acque libiche».

A quel punto arrivano le navi delle organizzazioni private, le celebri Ong. Non essendoci a bordo di queste navi ufficiali di polizia giudiziaria, non si conoscono le modalità dei soccorsi. Una densa zona d’ombra avvolge diverse Ong, ed è giusto sottolinearlo. E Malta? «Dagli atti ufficiali – ha precisato Zuccaro – l’area Sar italiana è di 500 mila chilometri quadrati, e non è direttamente confinante con le acque territoriali libiche. Tra le due aree si interpone la Sar maltese, che è di 250 mila chilometri quadrati, dove l’autorità di soccorso di Malta si rifiuta sistematicamente di intervenire alle richieste di soccorso».

Che cosa serve dunque? La creazione di hotspot a livello internazionale, gestiti dagli Stati, per impedire alle organizzazioni criminali il traffico di esseri umani. In questo modo si salverebbero vite, si gestirebbe adeguatamente sin dalle partenze il fenomeno. Oggi anche i più impenitenti tra i raffinati liberal se ne stanno rendendo conto ma non hanno il coraggio di ammetterlo. Preferiscono le morti in mare, evidentemente.

Torniamo dunque in Italia dove il fenomeno ha assunto proporzioni gigantesche. Per battere il traffico e di conseguenza il razzismo che sta crescendo, bisogna dissolvere l’illusione che, per garantire l’accoglienza e l’integrazione, sia necessario essere solo pietosi, aperti e tolleranti. No, non basta. E’ un grave, gravissimo errore limitarsi a un atteggiamento compassionevole, quando invece servono i servizi che funzionino e quartieri bonificati dal degrado e, finalmente, accoglienti. La sinistra è prigioniera, paralizzata, dell’enfasi no-borders, dei confini aperti per tutti che ha portato nelle mani della Lega e dei 5 Stelle milioni di italiani poveri e spaventati.

Servono anche vigilanza e parole chiare nel campo del lavoro, ormai deserto di diritti: ad esempio, quando eserciti di persone vengono utilizzate dai padroni per abbassare il livello del welfare, comprimendo i salari e i livelli minimi contrattuali, puntando a fare dei disperati un esercito di riserva. Per questo motivo quando opinion leader un tanto al chilo, ci dicono che gli immigrati svolgono i mestieri che gli italiani non vogliono fare più, mentono spudoratamente (lasciamo queste considerazioni ai Severgnini o ai Saviano). Gli italiani non vogliono lavorare come schiavi, senza diritti, esposti alle vessazioni. Il jobs act è anche questo. Il lavoro somministrato un’ora alla settimana è questo. Se non lo fai ci sarà un’altro da mettere nell’ingranaggio.

Ovunque le leggi e le regole devono essere fatte rispettare e così la civiltà e il diritto. L’enfasi dell’accoglienza e persino dell’antirazzismo – una delle basi della convivenza – non può essere declinata come un semplice rassicurante paravento che impedisce di vedere che cosa si agita nelle città e nelle periferie. Qualcuno ha imparato il termine multiculturalismo e lo declina senza cervello. Elemento imposto con violenza, coacervo oscuro di umori contrastanti che non significa nulla in mancanza di apparato statale forte e giusto che impedisca di trasformare le città e le loro periferie in una landa desolata di arbitrio, ingiustizia, degrado e violenza. E che può far deflagrare le comunità. Trasporti, asili e scuole, biblioteche, consultori, controlli, cura del verde, ecco cosa serve. Consentire di creare dei bantustan nelle città significa al contrario mettere le fondamenta del razzismo e dell’esclusione, creare rancore e un livello di competizione sociale tra i ceti popolari e i cosiddetti ultimi. Quartieri interi di Bruxelles, di Parigi, di Malmoe, di Londra sono ormai aree di degrado e arbitrio.

Chi soffia sul fuoco del rancore sa che il disagio dei ceti popolari è forte e indica nel disperato un nemico. Il voto politico del 4 marzo lo ha dimostrato ma tacciare di razzismo le paure, i timori e i disagi del popolo impedisce di affrontare il problema e risolverlo. Capovolgere questo paradigma significa, invece, fare cose complicate ma necessarie: hotspot internazionali controllati per impedire le mortali traversate, integrare quanto si può dentro un sistema di civiltà del lavoro e di valori repubblicani, aiutare certo ma anche punire e finalmente espellere. Senza questa capacità non ci si può limitare a gridare accoglienza accoglienza, a chiudere gli occhi di fronte alla mancata integrazione e non vedere il ruolo dei trafficanti di esseri umani. Troppe anime belle, complici inerti del grande capitale abdicano alla necessità di comprensione della realtà e di governo dei fenomeni sociali nel senso della giustizia e dell’equità.

Le masse di migranti sospinte in Europa – da guerre e carestie ma anche da organizzazioni efficienti e senza scrupoli – sono utilizzate in nome della competività sempre più sfrenata, a favore del capitale e per abbassare tutele e diritti di tutti.

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