Ripartire dal Pci e dalla stagione di Berlinguer: la sinistra italiana ha altre strade?

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di Vindice Lecis

E’ sorprendente come nelle pensose analisi per il rilancio della sinistra italiana si sia smarrita l’esigenza di guardare alla tradizione italiana. Invece un po’ di Linke tedesca, molto Podemos, abbastanza di Tsipras con Syriza, perché no anche il vate Varoufakis, con una spruzzata di France Insoumise sono i nuovi riferimenti della disperazione. Eppure, un tempo, avveniva il contrario. Partiti comunisti e socialisti, organizzazioni operaie e sindacali di tutto il mondo guardavano all’Italia come a un laboratorio di indiscusso prestigio e autorità. Movimenti di liberazione e forze di opposizione, a volte illegali e clandestini nei loro paesi, avevano l’Italia come punto di riferimento ineludibile. Per la produzione teorica e, sopratuitto, per l’azione politica concreta.

Quel riferimento era il Partito comunista italiano del tempo di Enrico Berlinguer. Oggi rimosso dagli studi, dalle analisi, dagli editoriali, dalle pratiche politiche. Persino da chi si dice comunista e magari, che so, preferisce Bordiga. Eppure, se la sinistra italiana ripartisse da quella fecondissima esperienza – certo innovandola ma non stravolgendola – avrebbe già fatto un bel pezzo di strada per la propria rinascita. Perché avrebbe ben più chiara la sua funzione e il suo ruolo. E riavvierebbe la connessione sentimentale con il popolo.

La via nazionale di avanzata verso il socialismo, le cui fondamenta erano state poste con la costruzione del togliattiano partito nuovo, avevano avuto seguito e sviluppo, ricerca ideale e l’estensione più ampia e travagliata con la segreteria di Berlinguer. L’eurocomunismo e la terza via, la democrazia come valore universale erano quei punti cardini che proiettavano i comunisti italiani nella ricerca di una forma originale di avanzata democratica e socialista. Berlinguer, al comitato centrale del 1982, spiegava a proposito della terza via che non si trattava “di cercare una via di mezzo tra il socialismo e il capitalismo. Si tratta di superare il capitalismo allo stadio cui esso è giunto qui da noi, nell’Occidente industrializzato e sviluppato e di superarlo costruendo un socialismo che si realizzi nella salvaguardia delle libertà democratiche già conquistate e nel loro sviluppo”.

Con Berlinguer, i comunisti, non solo raggiunsero la più elevata crescita elettorale e furono chiamati dagli italiani a governare le più grandi città, ma elaborarono anche un’avanzata teoria dello Stato. Nella prefazione ai discorsi parlamentari di Togliatti, il segretario comunista affermava nel 1984 che “lo Stato, in tutti i suoi organi, dovrebbe rendersi conto e prendere atto degli sviluppi, dei mutamenti della società, delle sue conquiste, assumerle progressivamente nell’ordinamento giuridico, sancirle in norme legislative certe e stabili, ossia in una parola, istituzionalizzarle rendendoli, così, generali, di tutti i cittadini, loro bene comune, patrimonio dell’intera nazione e metterle al riparo da processi involutivi e dagli attacchi reazionari”. Il contrario dello Stato oppressivo e autoritario.

Sempre in quello scritto ammoniva i partiti. La conferma della loro funzione primaria nella sfera politica, era garantita “a patto però che essi se la guadagnino e ne siano degni esercitandola correttamente, democraticamente e ponendola al servizio dell’interesse collettivo generale”. Quel primato può legittimarsi e ricevere consensi “solo se i partiti stabiliscono un rapporto diretto e continuo con la società nei suoi diversi strati, con i cittadini, ne interpretano e ne formano la coscienza politica… ne organizzano la mobilitazione e la partecipazione democratica”.

I partiti, nel ragionamento di Berlinguer, sono dunque essenziali strumenti di crescita, partecipazione, base fondamentale di organizzazione della democrazia. Ma devono essere al servizio del Paese, al di fuori di interessi particolari. Nel 1980 in un articolo su Rinascita rilanciava la questione morale, affermando che “è diventata questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia delle istituzioni, la effettiva governabilità del Paese e la tenuta del regime democratico”.

Berlinguer vedeva, in quegli anni, il declino della Repubblica già duramente provata dall’attacco terroristico e dal cancro della P2. A Eugenio Scalfari nella celebre intervista del 1981 ribadiva che “la questione morale… fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro… Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano”. In quello stesso anno spiegava che il rinnovamento dei partiti era la condizione per “evitare la crescita di un divario che può divenire assai pericoloso per le sorti della democrazia”.

Temi attuali, dunque, attualissimi in tempi di partiti esangui, personali, notabilari, comitati elettorali e d’affari.

Una sinistra moderna, dell’oggi, non può che riandare ancora al Berlinguer (e a quel Pci) così attento alle questioni femminile. Spingendosi molto avanti anche rispetto alla tradizionale analisi del movimento comunista. Alla scrittrice Carla Ravaioli che lo intervistava nel 1976 diceva chiaramente che “certa mentalità retriva e discriminatoria nei confronti della donna, certe posizioni pregiudizialmente antifemnminili e antifemministe… costituiscono un ostacolo pesante all’emancipazione femminile e sì, fanno dell’uomo l’oppressore della donna. E non mi riferisco solo al borghese, al capitalista, ma anche all’operaio, anche al proletario, anche al comunista. E’ il retaggio di una storia antichissima che oggi… determina una certa lotta tra i sessi e l’esigenza per la donna di una liberazione anche nei confronti dell’uomo”.

Il valore storicamente universale della democrazia è un’altra pietra angolare della segreteria Berlinguer che può e deve essere assunta nell’oggi. Il 2 novembre 1977 intervenendo a Mosca alle celebrazioni del sessantesimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre fu chiaro e netto. “Il Pci è sorto anche esso sotto l’impulso della rivoluzione dei Soviet. Esso è poi cresciuto soprattutto perché è riuscito a fare della classe operaia, prima e durante la Resistenza, la protagonista della lotta per la riconquista delle libertà contro la tirannide fascista e, nel corso degli ultimi trent’anni, per la salvaguaedia e lo sviluppo più ampio della democrazia. L’esperienza compiuta ci ha portato alla conclusione… che la democrazia è oggi non soltanto il terreno sul quale l’avversario di classe è costretto a retrocedere, ma è anche il valore storicamente universale sul quale fondare un’originale società socialista”.

Berlinguer era un comunista che parlava a tutta la sinistra e, in generale, all’intero paese. E aveva ben chiaro il ruolo del partito. Non mancava mai il richiamo continuo e costante alla sua funzione di costruzione e di avanguardia (ma non due passi davanti, diceva ironizzando), senza boria di partito, senza chiusure aprioristiche, pur rivendivcando un’orgogliosa diversità che mai sfociava nell’isolamento. “Lo spirito di ribellione – disse nel comizio di chiusura alla festa dell’Unità di Genova nel settembre del 1978 – è una premessa rivoluzionaria, ma la rivoluzione non si fa rifiutando individualmente o a gruppi il lavoro; la rivoluzione al contrario, si fa attraverso una severa preparazione e disciplina di lavoro e di studi e lottando perché, insieme, in tanti, si cambino le basi della società per trasformarla in una democrazia socialista”.

In quella occasione ripeteva ciò che, allora, era ben chiaro e oggi dimenticato. “Alla base di tutto lo sviluppo delle società umane c’è la lotta delle classi; cioè il misurarsi di schieramenti sociali, e di alleanze che tendono o a conservare l’esistente o a trasformarlo… Bisogna andare a un blocco sociale più ampio. Oggi la fase cui è giunto il capitalismo fa sorgere un problema… certo di nuova rilevanza per la politica delle alleanze della classe operaia”.

Ripartire da Berlinguer significa riandare alla necessità del definirsi comunisti e di praticare questa esigenza nel XXI secolo. E’ di straodinaria attualità una sua intervista “profetica” su Critica Marxista del marzo 1981. “La difficoltà in cui si sono imbattiti i partiti socialdemocratici sta proprio in ciò: che la loro politica, illudendosi di essere realistica e concreta, nei fatti è diventata spesso adeguamento alla realtà così come essa è, e ha portato alla messa in parentesi dell’impegno al cambiamento dell’assetto dato; li ha portati cioè all’offuscamento della perdita della propria autonomia ideale e politica del capitalismo”. Aggiungendo che la diversità del Pci dalle socialdemocrazie “sta nel fatto che a quell’impegno trasformatore e a quella autonomia ideale e politica noi comunisti non rinunceremo mai”. La stessa affermazione sulla laicità del Pci veniva inserita non nel vecchio laicismo ottocentesco integralistico ma, al contrario, la collocava dentro un processo di “modifiche profonde dell’attuale ordinamento sociale” dove era possibile e necessario “realizzare una convergegnza tra differenti posizioni culturali e ideali e fra uomini e movimenti di diversa ispirazione filosofica e religiosa”.

Berlinguer e il suo partito hanno segnato profondamete l’Italia repubblicana. E reso viva la speranza di una lotta per una società più giusta. Aver abbandonato la storia, le scelte, la politica, l’insegnamento del Pci è stata la causa del crollo della sinistra italiana, della sua inutilità, della sua indeterminatezza e marginalizzazione, della sua insopportabile leggerezza e nella trasformazione in un vestito fatto di rammendi di ispirazione liberale, orfana del compito storico di rappresentanza e di trasformazione.

Che scandalo c’è, dunque, nel ripartire da quella storia e da Berlinguer?

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