Dietro la rissa del Pd sardo c’è un regime che crolla e il potere che sfugge

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di Vindice Lecis

Lo spettacolo pietoso, a tratti divertente, della rissa sfiorata, degli insulti, degli sputi e degli spintoni andato in scena all’ultimo comitato regionale del Pd sardo non deve stupire. I video diffusi in rete – da rivedere al rallentatore o al Var – ci hanno mostrato patetiche figurette, descamisados sorprendenti, tifosi urlanti da curva calcistica, riportando alla memoria i mitici congressi democristiani di parecchi decenni fa, dove i signori delle tessere, davanti a platee accaldate di delegati del sottogoverno impiegatizio, facevano e disfacevano accordi. Mi sono chiesto, vedendo agitarsi come falene impazzite i vari Soru, Marroccu, Lai e immaginando altri burattini e, ben nascosti, pupari più felpati, di che cosa stessero parlando, su che cosa litigassero costoro. Non certo sui trasporti o sul lavoro, e nemmeno sull’urbanistica cementizio-qatariota o sulla sanità appaltata all’estero. No, parlavano d’altro.

Il Pd sardo è allo stremo. Ed è un bene che lo sia. Nel suo orizzonte c’è un rapido declino come accade nella storia umana a tutte le strutture ossificate da una lunga pratica di potere, corrose dal cinismo e dalla sclerosi di un agire politico che lo ha reso simile a formazioni che, un tempo, dovevano essere avverse. Perversi comitati elettorali, logorati da una continua e brutale disamistade interna.

Questi uomini e queste donne del Pd sardo – ma si tratta di un dato omogeneo a livello nazionale – non solo hanno accettato con maggioranze plebiscitarie tutte le leggi del renzismo berlusconizzato, ma hanno aiutato con il loro conformismo silente, ben ripagato per alcuni, la trasformazione genetica di un partito in un grumo affaristico e privo di umana decenza. Che cosa dire infatti di un partito che non è stato in grado nemmeno di analizzare autocriticamente il perché sia stato abbandonato giorno dopo giorno, elezione dopo elezione, dai loro elettori. Hanno seguito Renzi sul referendum costituzionale, hanno osservato senza battere ciglio alla perdita di città come Roma e Torino e Genova e di intere regione e di una miriade di altri luoghi. Hanno forse sollevato un ciglio quando hanno visto il baratro di militanza, l’assenza di passione, la supponenza di quei leader nazionali e intermedi (sono fatti con lo stampino) che non si ponevano il problema delle valanghe di arresti, della questione morale che li aveva travolti? Nulla. E infatti nel Pd sono rimasti in pochi e tutti preda di un rancore belluino.

Somigliano a Ceaucescu quando parlò in piazza a Bucarest nel 1989 e fu fischiato. La stessa espressione incredula di fronte a un regime che si sfarina, al consenso che si dissolve.

Soru è quello più ambiguo. E’ intelligente e, dunque, tenta di costruire un partito parallelo – esterno ma non tanto lasciando al Pd di restare una bad company – fatto di anime belle. Che però alla fine si dimostrano gente sorda e cieca, che non riescono ancora a vedere i limiti giganteschi del procedere politico di questo ex presidente della Regione che punta alla rivincita. Ma è una rivincita dal sapore amaro e ambiguo. Sulla sanità appoggia Pigliaru e Arru. Sull’urbanistica, il suo cavallo di battaglia, assume posizioni contraddittorie. Il problema è che un imprenditore non può dirigere un partito, mai. Lo dicevamo per Berlusconi e lo confermiamo ora per Soru. Nemmeno è credibile quel suo estrarre dal cilindro figure spacciate come auto candidati. Dispiace che qualcuno, anche a sinistra, non veda questo gigantesco macigno e si presti a sceneggiate. E dimentichi le imbarazzanti affermazioni sulla comunità di destino e, persino, sull’antifascismo.

I suoi contraltari interni sono fatti della stessa pasta: si chiamano chissà perché popolar-riformisti e sono un grumo di renziani abbruttiti dal rancore, abatini cristiano-sociali ed ex comunisti cinici (ne sono rimasti pochi) come preti spretati a prendere ordini dai socialisti, loro sì numerosi e rimasti tali. Col pingue potere finanziario saldamente nelle loro mani. Ma, si presume, ancora per poco.

Il Pd non è sinistra, non è riformismo, non è trasparenza, non è buon governo. Non è difesa e sviluppo della democrazia. Non è rilancio dell’autonomia regionale. Il Pd – sin da Veltroni e passando per Bersani – è una mescolanza indigesta, un partito ossimoro inturgidito dal potere che si sta disfacendo. I partiti devono essere utili a qualcosa per dimostrare la loro esistenza. Il Pd lo è stato per devastare la sinistra, annullare la tradizione comunista, e fare in Italia ciò che voleva l’Ue, la Bce e il Fmi: distruggere il lavoro e l’intervento pubblico nell’economia.

Ora che la missione è stata portata a termine, quegli stessi soggetti cercano nuovi corpi, nuove formazioni alle quali affidare i loro desideri.

Di che cosa vi stupite, anime candide?

 

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