Vi ricordate del 25 aprile? L’eredità della Resistenza, la zona grigia e la democrazia dei pareggi di bilancio

da: archivioresistenza.fondazionegramsci.org
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di Vindice Lecis

Sono trascorsi 75 anni dal giorno della Liberazione dell’Italia dai nazisti e dai fascisti. La Resistenza – con i partiti, le formazioni armate, i programmi di lotta, la vita delle partigiane e dei partigiani – fa ormai parte della storia profonda del Paese, ne rappresenta la carne viva. Il nostro orgoglio di italiani. Ma occorre amaramente ammettere che quel moto fondativo della nostra democrazia che fu la base necessaria della Costituzione è ancora vissuto con estraneità e indifferenza da una parte dell’Italia – la zona grigia – e con una rinnovata ostilità da una destra che non solo non rinnega ma rivendica orgogliosamente  le sue radici fasciste e le sue pulsioni autoritarie.

Da oltre un ventennio quella memoria catacombale di ispirazione neofascista e un tempo assai minoritaria è diventata più aggressiva. Merito di quella genìa di revisionisti storici provenienti “da sinistra” che ha aperto le porte a una libellistica antipartigiana, alla retorica dei ragazzi di Salò, a un vento fetido di anti-antifascismo che ha portato all’attacco frontale alla Resistenza e al suo ruolo nella storia italiana. Allo svilimento dell’antifascismo negato come fattore fondativo della democrazia italiana.

Bisogna chiedersi il perché.

Non c’è nessuna indulgenza apologetica nell’affermare che la Resistenza è stata per l’Italia un’occasione formidabile davanti al mondo di riscatto dal fascismo, una possibilità storica di cancellare  la vergogna di essere stata l’incubatrice del morbo che ha infettato il mondo e l’alleata della Germania hitleriana. Ma allo stesso tempo bisogna pur riconoscere che questa nostra democrazia repubblicana vive una crisi profonda e sembra distante da quella storia, solo apparentemente lontana.

Questa democrazia è in pericolo.

Lo è da tempo. Da quando i partiti di massa si sono trasformati in macchine clientelari e comitati elettorali. Da quando è stato cancellato il sistema proporzionale. Da quando abbiamo inserito l’osservanza di trattati europei nella Costituzione. Da quando parlamenti asserviti a leader hanno cancellato decenni di conquiste sociali, a partire dalla libertà di licenziare e dall’obbligo di rendere immutabile il lavoro precario.

Il nodo è questa Europa.

La riduzione dell’intervento pubblico in economia è stata una richiesta precisa e ineludibile delle élite dominanti europee. Come la perentoria raccomandazione di affiancare il privato al pubblico tanto da rendere questo come un carro senza ruote, debole e inerte. Lo abbiamo visto con la sanità – i disastri di oggi sono anche il frutto di quelle scelte – la scuola, le istituzioni.

Il fascismo non si ripresenta mai con la stessa maschera e assume forme diverse a seconda dell’utilità e delle necessità richieste dalle classi dirigenti e dominanti. Ciò non significa che sia il fascismo una categoria immutabile dell’uomo, a patto che si comprenda che i nuovi ceti dominanti – divisi tra  sciovinismo  e un’adesione fideistica alle sorti immutabili del mercato capitalistico che tutto dispone e che si riconosce oggi in un’Europa succube della finanza – scelgono volta per volta il cavallo. E cambiano sovente – come diceva Gramsci – spalla per il proprio fucile.

Lo strangolamento greco è stato un monito feroce, come lasciare un impiccato ai bordi di una strada per dare un esempio. La stessa concezione egoistica europea a trazione tedesca, non presuppone mai elementi di solidarietà quanto di vassallaggio e di dominio. Che si parli di Mes, di recovery bond o di euro-bond, le ipotesi di pacchetti di investimenti per la ripresa non solo vogliono evitare una vera condivisione del debito ma – se non oggi, succederà domani – concedono linee di credito in cambio di rigorose discrezionalità.

La questione della sovranità nazionale ridiventa centrale.

Non si deve stupidamente scomunicare questa esigenza ineludibile mescolandola col sovranismo. In nome di che cosa? Dell’Erasmus? Dei vertici informali dell’Eurogruppo? Davvero possiamo immolarci per la disciplina di bilancio? Nemmeno di fronte a una tragedia immane come questa epidemia – che provocherà una crisi ancora maggiore che colpisce e colpirà duramente masse enormi di cittadini – l’Europa è stata capace di uno scatto in avanti. Solo miserie ragionieristiche.

Ecco perché la dimensione nazionale è oggi il terreno sul quale si misura concretamente la possibilità di fare politica per la difesa degli interessi reali dei ceti subalterni.

Bisogna far saltare perciò quei meccanismi europei figli del liberismo che generano austerità e accentuano gli squilibri sociali. In questi anni la lotta di classe è andata avanti. Ed è stata una vittoria su tutta la linea delle classi padronali che hanno imposto le loro esigenze come primarie e legittime. Il profitto anzitutto basato su peggiori condizioni di lavoro e di vita. Aprendo le porte  alla reazione di destra, xenofoba, antipopolare.

Terminata la lotta di Liberazione, accanto alla necessità di costruire una nuova Italia che rompesse non solo con il fascismo ma anche con l’Italia liberale che lo aveva allevato, mai si spense a sinistra un grande confronto sulle prospettive, sullo “sbocco”. Si diceva che comunisti e socialisti  fossero divisi su tutto tranne che “sul fine”. Ma oggi – da decenni – elisi certi termini che cosa resta?

A sinistra è sufficiente contrapporsi (giustamente) al salvinismo ignorando e restando indifferenti, come se la questione non li riguardasse, alla ragione storica della propria esistenza? Vale a dire il socialismo. Parola difficile da usare, spettro che fa paura, ma esigenza vera, reale.

Lo squallore del presente è che il dogmatismo che taluni imputavano al marxismo è invece in chi crede che la società capitalistica sia il termine ultimo della storia, la fine dell’evoluzione dell’umanità. E che dunque possano servire, di tanto in tanto, solo dei rattoppi. Eppure se vogliamo che la Resistenza non sia solo una ricorrenza ma  sempre attuale e palpitante, dobbiamo ritornare a quelle radici storiche rilanciando la necessità delle trasformazioni sociali. Questa è la rottura storica che serve oggi.

Per concludere, è bene tenere a mente mentre si festeggia la Liberazione che l’obiettivo politico della Resistenza non fu genericamente la riconquista della libertà, di tornare allo stato liberale di prima del fascismo. No, questa è una lettura edulcorata, un tradimento di quegli ideali e dei fatti. La Resistenza fu una rivoluzione democratica che aprì con coraggio una fase del tutto nuova nella storia dell’Italia dove confluirono correnti differenti. La Costituzione fu il segno distintivo, l’eredità di quella nuova Italia. Oggi però da applicare anche in nome dell’indipendenza e della sovranità nazionale da riconquistare.

 

 

 

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