Il vicerè Juan Vivas e lo scontro tra Sassari e Cagliari nella Sardegna seicentesca

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di Vindice Lecis

A Cagliari, la mattina del 22 maggio 1624 un drappello di soldati guidati da un alguazil, fece irruzione nella sala della Reale Udienza mentre i magistrati erano riuniti. Con gli archibugi spianati, arrestarono il dottor Francisco Cortes, un giudice catalano nemico giurato del viceré Juan Vivas. Legato e ancora vestito con toga e tocco sulla testa, in groppa a un ronzino lo condussero nel castello di San Michele. Nei giorni seguenti sempre con toga e tocco, lo misero a cavallo con mani e piedi legati portandolo a Ussana e poi a Iglesias agli arresti domiciliari.

Il parlamento sardo, che aveva cominciato i lavori il 5 febbraio, viveva in quei giorni una delle sue giornate più travagliate a causa dello scontro violento che opponeva il viceré ai rappresentanti cagliaritani del braccio militare – i nobili – e di quello ecclesiastico. Vivas aveva fretta invece di far approvare, come alla fine delle Corts avvenne, provvedimenti essenziali per l’isola: la creazione di una flotta di galee sovvenzionata dai sardi in funzione anti barbaresca; il progetto per piantare svariati milioni di olivi selvatici; l’istituzione di un censore in ciascun villaggio per promuovere la produzione agricola e l’introduzione di una sorta di industria laniera e della gelsicoltura. Ma al viceré, uomo del duca di Olivares, potente valido del re Filippo IV, interessava anzitutto far approvare il donativo decennale da destinare alla Corona, vale a dire 150 mila ducati ai quali si aggiungevano i 25 mila ducati per la flotta.

Per questo motivo, dopo tre mesi di lavori estenuanti, Vivas non andò troppo per il sottile per procurarsi un’ampia maggioranza. La ottenne da una parte stringendo un’alleanza di ferro con i ceti sassaresi – un terzo della nobiltà proveniva dal Capo di Logudoro – e con alcuni ecclesiastici che mal sopportavano l’egemonia dell’influente arcivescovo di Cagliari Francisco de Esquivel, già Inquisitore a Maiorca. Ma il buon risultato finale fu ottenuto anche con l’intimidazione nei confronti della parte avversa. L’arresto del magistrato Francesco Cortes – comunque sospettato a sua volta di aver ucciso un uomo – è uno dei tanti episodi che costellarono quei mesi di sessioni stamentarie ma anche il regno di don Joan Vivas de Cañamas. Chiusa la sessione parlamentare con un effimero successo, fiorirono i ricorsi, i memoriali, i pamphlet calunniosi nei suoi confronti. Celebre fu quello del frate Serrano. Suoi nemici acerrimi furono, oltre al già citato De Esquivel, i nobili e i consiglieri cagliaritani e molti uomini dell’apparato giudiziario e reale. Tra questi primeggiavano don Paolo de Castelvì, procuratore reale, oltre al giurista Dexart, autore di molti dei libelli anonimi. Tra i suoi alleati, il giurista sassarese Francsco Angel Vico y Artea, avvocato fiscale che divenne reggente del Consiglio d’Aragona.

Pur giudicato uomo di carattere collerico, autoritario, irascibile, Vivas era tuttavia un uomo di governo di prim’ordine. Un fiero rappresentante della politica assolutistica di Filippo IV e del suo valido. Lo storico Antonello Mattone ne tratteggia un ritratto approfondito e vivace nel saggio “ Don Juan Vivas de Cañamas. Da ambasciatore spagnolo in Genova a viceré di Sardegna” (Franco Angeli editore, 2019, 552 pagine, 53 euro) che a proposito del triennio 1623-1625 riconosce sia le ragioni del viceré che quelle degli Stamenti sardi. Il respiro di quelle vicende è ampio.

Nel 1600 Vivas era stato nominato ambasciatore a Genova, snodo fondamentale della politica mediterranea della monarchia asburgica. Per 22 anni si trovò catapultato al centro delle vicende più importanti della potente Repubblica e dei suoi rapporti con la monarchia spagnola, oberata di debiti oltre che insolvente, per le spese di una corte dissoluta e per le continue avventure belliche.  Vivas è certamente un personaggio importante nella storia della Sardegna spagnola, per l’esperienza di governo – e dei suoi maneggi – vissuta nel momento in cui la politica della Corona era egemonizzata dal ministro Olivares propugnatore delle Uniò de Las Armas, un ambizioso riassetto della monarchia finalizzata a razionalizzare le risorse da gettare nel buco nero della Guerra dei Trent’anni.

Vivas chiese in quel momento di lasciare Genova e di essere nominato viceré di Sardegna, carica vacante per l’uscita del conte d’Eril nonostante una pesante diminuzione del suo onorario (8000 ducati da ambasciatore contro i 3000 da viceré). Certamente voleva integrare lo stipendio con le esportazioni di grano, come avevano fatto i suoi predecessori. Ma proprio sullo stipendio, cominciarono i primi contrasti con i cagliaritani che mai si sarebbero appianati.

Quando l’ex ambasciatore a Genova giunse in Sardegna, trovò una situazione complicata. Il conflitto tra Cagliari e Sassari stava crescendo d’intensità. Cominciata sul terreno religioso e con la – dovete grottesca – invenzione dei corpi santi vale dire il frequentissimo ritrovamento  di ossa attribuite a un numero imprecisato di santi (prima i resti di Gavino, Proto e Gianuario a Porto Torres seguiti da quelli di Cisello, Carino e Lussorio nella necropoli di San Lucifero, e ancora da Sant’Archealo a Fordongianus, San Simlicio a Terranova e SantImbenia a Cuglieri), proseguì su quello municipalistico. Sassari chiedeva che fosse consentito, tra l’altro, ai suoi nobili di potersi riunire in città e di non recarsi a Cagliari, per discutere i problemi del Capo di sopra. Posizione fieramente avversata dai cagliaritani., appoggiati alla fine dallo stesso re.

Mattone – già professore ordinario di storia delle istituzioni politiche dell’Università di Sassari e autore di numerose monografie e saggi sulla storia istitzuonale medievale e moderna – tratteggia quindi con vivacità la nobiltà sarda la sua intrinseca debolezza. Lo stamento militare era formato da nobili, titolati, possessori di feudi, cavalieri e anche caballeros (definito “il proletariato della nobiltà”). Spesso squattrinati ma non meno famelici. Ma il loro potere era ben poca cosa se paragonato alla grande nobiltà spagnola “assenteista”. Su 335 villaggi infeudati ben  185 appartenevano ai sette grandi signori residenti in Spagna, 118 alla nobiltà locale e i restanti 32 alla Corona.

Vivas volle imporre una politica assolutista e meno contrattualista, del do ut des. La reazione che avvenne nel parlamento del 1624, afferma Mattone rappresentò dunque “ la prima significativa lacerazione tra il governo centrale, impersonato a livello periferico dal viceré Vivas, con la sua ambigua e radicata concezione della ragion di Stato ispirata … dalla tradizione classica, e la rappresentanza politica (seppur non maggioritaria) del Regno”.

Utilizzò ogni strumento, lecito e illecito, per vincere la partita: gli arresti improvvisi di oppositori con relativo esilio; la rispettosa attenzione alle esigenze sassares; l’utilizzo spregiudicato  dell’esercito per intimidire. Il tercio lombardo, giunto in Sardegna, fu infatti utilizzato come strumento di intimidazione imponendolo nei villaggi del marchesato di Laconi e delle contee di Serramana e Palmas, feudi dei principali oppositori. O anche nelle loro case di Villanova.

La Sardegna – che contava allora 65.360 fuochi fiscali, dunque meno di trecento mila abitanti – lamentava gli stessi problemi che già il canonico Martin Carrillo, il celebre Visitador di Saragoza nel primo decennio aveva denunciato: la mancanza di giustizia anzitutto. Non era un caso che a pochi mesi dall’arrivo di Vivas, il 6 marzo 1622, Angel Giacaracho assessore criminale della Reale Udienza veniva ucciso con due colpi d’archibugio . Rapide indagini accertavano che gli assassini erano due fratelli, già autori di un omicidio sul quale Giacaracho stava istruendo la causa.  Aiutati dal padre a fuggire furono però raggiunti dalla zio, tal cavaliere Matteo Deliperi che, aiutato da due complici, li uccise tagliandogli la testa. Deliperi e i complici furono arrestati, torturati e poi giustiziati. Ma dall’interrogatorio emerse una gigantesca macchinazione che portò all’individuazione dei veri mandanti del delitto del magistrato: due esponenti dell’oligarchia sassarese, entrambi familiare dell’Inquisizione. I due arrestati fuggirono e per vent’anni restarono latitanti. I Sant’Officio fece di tutto per aiutarli. Un nuovo esempio di difficoltà ad amministrare la giustizia.

Vivas morì a Sassari per una forma influenzale e dissenteria dopo una lunga agonia alle sette della sera del 22 settembre 1625. I funerali si celebrarono il giorno dopo nel pomeriggio in forma solenne con un corteo funebre accompagnato dal rullo dei tamburi coperti da una garza nera. Il corteo – aperto dalle confraternite, dal clero, dall’arcivescovo e dallo stendardo portato da un cavaliere che montava un cavallo bardato di nero –  partito dal palazzo del governatore attraversò i vicoli per raggiungere la cattedrale di San Nicola. L’amministrazione sassarese si fece carico delle spese. D’altra parte Vivas si era sempre mostrato sensibile alle istanze del Capo di sopra. Mattone conclude affermando che nonostante la fredda opposizione dei feudatari l’eredità di Vivas “si farà sentire a proposito dei provvedimenti a favore dell’agricoltura” e per l’organizzazione della squadra delle galere che tuttavia, e solo in forma ridotta, cominciò a operare solo nel 1640.

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