Perché Draghi è inadatto a guidare una democrazia

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di Vindice Lecis

Nel 2001 il settimanale inglese The Economist dedicò a Silvio Berlusconi una celebre copertina, definendolo inadatto a guidare l’Italia. Vent’anni dopo, quel titolo poco lusinghiero si adatta magnificamente a Mario Draghi per la palese e chiara inettitudine a governare una democrazia.

Probabilmente, dopo le ultime mosse del presidente del consiglio – apparse poco lucide e scarsamente autonome  – in molti tra coloro che lo hanno esaltato nei mesi scorsi si stanno ponendo qualche domanda.

Draghi e la politica estera. Sulla guerra, la Nato, la pace, la trattativa, il medio oriente, la Cina, l’ex presidente della Bce non ha fatto sentire, nemmeno in modo flebile una voce autonoma nel grigio e conformista panorama “occidentale”. La posizione dell’Italia a proposito della pace è schiacciata su quella affaristico-strategica di Biden e complementare a quella di Bo Johnson, vale a dire la preparazione della guerra. La sua assoluta mancanza di dubbi – con la presenza nel governo di un personaggio di basso profilo alla guida degli Esteri, totalmente inadeguato – ha relegato l’Italia al ruolo di “Bielorussia degli Usa” (ci scusino a Minsk l’azzardato paragone), di alleato servile e silente della potenza nucleare Usa. Ascoltando le dichiarazioni del presidente del consiglio italiano, non si scorge infatti il minimo afflato verso la dinamica del dialogo, dell’analisi e dell’accettazione di un mondo multipolare. La sua è una vecchia, vecchissima visione da guerra fredda, da blocchi contrapposti. Da una parte Noi (il capitalismo, la democrazia finanziarizzata come valori fondamentali), sul lato opposto gli altri (due terzi del mondo dove sono compresi Cina, Russia, India).

La sua visione chiusa e angusta -manichea – rende marginale non solo l’Italia ma l’intera Europa anche nella partnership con gli Usa, tornati a spadroneggiare.

Draghi e l’economia. E’ arrivato a Palazzo Chigi col mandato dei circoli finanziari europei, di quelli atlantici e di Mattarella. Il risultato di quattordici mesi di governo è netto: del tutto insufficiente sul versante dell’economia reale. Già nel dicembre 2021 –  quando ancora la guerra non era deflagrata e si faceva finta di non vedere l’Ucraina che bombardava il Donbass e la Nato che svolgeva le più imponenti manovre della sua storia –  l’economista Jean Paul Fitoussi bollava Draghi come “il premier perfetto delle élite” perché “aiuta soltanto i ricchi” (Intervista di A. Caporale su Il Fatto del 20 dicembre).

Erano quelli i giorni del Draghi trionfante con la sua santificazione a reti unificate (giornali-radio-tv) al punto che l’ex capo della Bce si era intestardito di voler lasciare Palazzo Chigi per salire sul soglio quirinalizio.

Ma proprio quella sua ambizione dai tratti ingenui e fanciulleschi ha fatto emergere l’altra faccia di Draghi. Un manovratore che minacciava di fare a meno di partiti e parlamento, goffo e poco misurato nelle sue dichiarazioni. Una sorta di alieno della democrazia parlamentare, già di per sè debolissima e succube dell’esecutivo.

In ombra in politica estera e liberale in quella economica, non ha saputo che teorizzare “l’idea salvifica della flessibilità nei rapporti di lavoro come balsamo per l’economia di mercato” (Fitoussi). E precarizzazione significa povertà. Draghi su questo è risultato insufficiente in modo imbarazzante.

Non è un caso che consideri lesa maestà la stessa idea di discutere e dialogare con i sindacati – già messi in un angolo da Renzi  nel passato – e di concertare una diversa idea di distribuzione del reddito.

Draghi e la democrazia. La frase attribuitagli di “non volersi fare commissariare dal parlamento” rappresenta il mondo intero del presidente del consiglio. Avvezzo ai rarefatti board della Bce e ora partecipante a vertici internazionali, vede nel parlamento un ostacolo, un freno, una minaccia. La ritrosia al confronto parlamentare sull’invio di armi all’Ucraina ne è stata la conferma.

A questo si deve aggiungere la fetida abitudine, in preoccupante aumento sotto il suo governo, dei dossieraggi, del controllo delle opinioni, della mordacchia al dissenso, del controllo persino degli ospiti in tv. Le liste di proscrizione di stampo maccartista (Servizi-Copasir-Corsera e poi radicali con Pd) sono episodi assai gravi sui quali il premier non ha proferito verbo (e tantomeno Mattarella). Confermando l’intolleranza insita nel pensiero liberale.

Esiste probabilmente nella sua mentalità un bene superiore che, si badi bene, non è la democrazia ma questo sistema occidentale dove non c’è posto per rivolgimenti, cambi più o meno drastici. Come durante la guerra fredda viene riesumato in modo più o meno silente l’assioma che tutto si può fare per difendere questo sistema “di valori” imperniato sulla Nato e sull’alleanza strategica con gli Usa. Anche le peggiori nefandezze (vedi strategia della tensione e caso Moro, ma anche i tentativi di golpe) venivano in questo modo giustificati i nome della doppia fedeltà.

Fatti comunque gravi, inquietanti. Se si guarda alla caduta del governo Conte forse legata alla Via della seta e al gasdotto Nord Stream 2 possiamo ben capire quanto in Italia contino le influenze esterne.

Ecco perché Draghi appare inadatto al governo e alla democrazia repubblicana, alla quale è estraneo per formazione e intimi convincimenti. Meglio un sinedrio di pochi ma buoni che governano il destino del mondo.

 

 

 

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